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Per affrontare la saga-in-progress di J.J. Abrams bisogna riconoscere che il Cloververse, l’universo di Cloverfield, è costruito come una sandbox, dove le possibilità narrative sono infinite.

Durante la notte del Super Bowl – in quello che spesso viene considerato il tempio degli spot pubblicitari e della promozione videoludica – è stato trasmesso il trailer di The Cloverfield Paradox, l’atteso terzo capitolo della saga avviata nel lontano 2008 dai registi J.J. Abrams e Matt Reeves. Dopo poche ore, spiazzati e sorpresi, gli spettatori e gli utenti di tutto il mondo potevano già vedere il film su Netflix. Dopo infiniti ritardi, svariati rinvii e molte teorie su trama e significato del film, chiunque ha ora la possibilità di godersi sul proprio divano il nuovo tassello dell’universo  Cloverfield.

The Cloverfield Paradox, diretto da Julius Onah, chiarisce finalmente quello che fino ad ora era rimasto sullo sfondo nel primo Cloverfield e nel suo sequel Cloverfield 10 Lane: perché la terra è stata invasa da alieni giganti? Siamo più sotto l’influenza di Godzilla, Cthulhu, Alien o Independence Day?

Non siamo più sulla terra, ma nella sua orbita, a bordo di una stazione spaziale dotata di una tecnologia – l’acceleratore di particelle Shepard – in grado di risolvere la crisi energetica che il pianeta sta affrontando. La cloverfield station, dopo diversi tentativi, riesce ad attivare l’accelleratore provocando però il paradosso del titolo e sovrapponendo due realtà apparentemente identiche, che entreranno ben presto in conflitto con conseguenze catastrofiche.

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Il film di Onah dà quindi le risposte che in molti aspettavano sin dal primo film della saga. La messa in scena, però, non ha soddisfatto troppo la critica, che ha bocciato il film con tiepide recensioni, o addirittura stroncature. Accusato di proporre un montaggio confusionario e portare avanti una trama poco convincente con scorciatoie narrative, il film non ha convinto come i precedenti titoli, che invece avevano smosso l’interesse di pubblico e critica grazie al loro sapiente mescolamento dei canoni cinematografici.

Proprio la previsione di tali critiche potrebbe aver convinto la Bad Robot di Abrams e la Paramount a vendere i diritti del film – costato circa 40 milioni – a Netflix per la cifra di 50 milioni, ripagando così l’intera produzione. All’interno del panorama fantascientifico, effettivamente il film non regge il confronto con altre opere di genere come l’autoriale Blade Runner, Gravity, la saga di Star Wars o piccole ma riuscite produzioni come Moon ed Ex Machina. Quello che però è sfuggito ai critici è che per affrontare la saga-in-progress di J.J. Abrams con la dovuta consapevolezza bisogna fare un passo indietro e osservare a distanza l’evoluzione del Cloververse, l’universo di Cloverfield.

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La saga di Cloverfield, a differenza di molti franchise cinematografici, è strutturata e esplorata come una sandbox — un ambiente di test slegato da regole predefinite e utilizzato per la sperimentazione, in questo caso, di idee applicate ai generi.

È lo stesso J.J. Abrams a spiegare la necessità di un ambiente di questo tipo nel suo Ted Talk del 2008: “Ho capito di essere attratto dalle situazioni che producono infinite possibilità, e il mistero è il catalizzatore più importante per la nostra immaginazione. Ci sono alcune volte in cui il mistero è più importante della conoscenza.” Subito dopo porta come esempio sul palco la prima sequenza di Lost, l’iconica serie del 2004 ideata dallo stesso Abrams insieme a Damon Lindelof e Jeffrey Lieber.

Una spiaggia, uno sfondo paradisiaco, su cui vagano persone a noi sconosciute vittime di un incidente aereo. Letteralmente una sandbox, un recinto di sabbia, intrisa di mistero e in cui – nelle successive sei stagioni – si susseguiranno le più svariate combinazioni: i viaggi temporali, i paradossi, gli orsi polari, il mito e la religione. “Cosa sono le storie se non mystery box,” aggiunge Abrams durante il suo Ted Talk.

Lo stesso principio si applica a Cloverfield: un universo che, a differenza di saghe come Star War o i film Marvel, non ha regole se non quelle dettate dall’immaginazione del suo ideatore. Grazie a questa libertà creativa, Abrams è riuscito a piegare i generi in favore del mistero. Il primo Cloverfield, uscito nel 2008, è ancora oggi uno dei tentativi più riusciti – dopo The Blair Witch Project – di utilizzo del sottogenere cinematografico found footage, per altro adottato fino a quel momento solo per pellicole horror. 

Nessuna genealogia da rispettare e nessuna fonte da ossequiare, solo il vincolo dell’immaginazione e della sua riproducibilità tecnica.

Ci sono voluti quasi dieci anni per avere il secondo capitolo, ma anche in Cloverfield 10 Lane J.J. Abrams posiziona i suoi personaggi, e lo spettatore con loro, in un “recinto di sabbia” privo di riferimenti. Per tutto il film il mistero sovrasta la conoscenza dello spettatore, che si chiede se veramente il sequel sia in qualche modo collegato all’originale. Ma lentamente il thriller si trasforma in un film di fantascienza e ancora un volta (come d’altronde era stato per il primo Cloverfield) l’opera prendere vita solo attraverso lo sguardo dello spettatore — un po’ come le mappe dei videogiochi open world.

The Cloverfield Paradox in tutto questo ha lo svantaggio, e il difetto, di rivelare finalmente qualcosa sull’universo in cui si muovono i personaggi della saga, spezzando il mistero tanto caro ad Abrams. Forse anche questo, unito a qualche pecca stilistica, ha condannato il film alla gogna dei critici. Ma se c’è un pregio nell’essere una sandbox è proprio quello di non dover seguire nessun struttura precostruita — proprio il fatto che l’ultimo film abbia in qualche modo fallito le aspettative fa sperare che Abrams & Co. siano ancora nella fase di testing, di sperimentazione, e che il franchise sia ancora lontano dall’essere incasellato in canoni e regole come i ben più noiosi o prevedibili cugini stellari e fumettosi.


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