La lista degli Shitty Media Men e perché ci servono ancora le reti di supporto
La lista degli Shitty Media Men conteneva 74 nomi di uomini famosi del mondo dell’editoria, seguiti dalla testata per cui lavoravano e dalla colpa che veniva loro imputata — da messaggi inopportuni a molestie, fino allo stupro.
in copertina Moira Donegan, autrice della lista Shitty Media Men.
La lista degli Shitty Media Men conteneva 74 nomi di uomini più o meno famosi del mondo dell’editoria e del giornalismo, seguiti dalla testata per cui lavoravano e dalla colpa che veniva loro imputata — da messaggi inopportuni a molestie, fino allo stupro.
Era metà ottobre dello scorso anno quando un documento Google, denominato “Shitty Media Men”, ha cominciato a circolare sul web. Condiviso da una fonte anonima, nel giro di qualche ora, però, è sparito, reso nuovamente privato. Il file conteneva 74 nomi di uomini più o meno famosi del mondo dell’editoria e del giornalismo, seguiti dalla testata per cui lavoravano e dalla colpa che veniva loro imputata — il range dei misfatti andava da messaggi inopportuni, a molestie, stalking, violenza fisica, fino allo stupro. La lista permetteva a chiunque avesse accesso di aggiungere informazioni, ma allo stesso tempo suggeriva alle donne di prendere con cautela le segnalazioni riportate, lasciando che i nomi nell’elenco restassero privati. Tutto questo succedeva poco tempo dopo lo scandalo Weinstein: la stampa internazionale stava trattando gli altrui codici morali, trascurano di occuparsi anche dei propri.
Jia Tolentino, del New Yorker, ha avuto modo di intervistare la fonte zero, la donna che per prima ha iniziato a redigere la lista: avrebbe detto di essere stata ispirata dal caso Weinstein, dalla figura di un predatore di successo e stimato, di cui tutti sanno, ma a cui nessuno si oppone.
La lista è stata realizzata con intenzioni nobili, con lo scopo di mettere in guardia le donne del mondo del giornalismo. Liste di questo tipo sono sempre esistite, anche se non erano scritte e condivise su Google Doc. Shitty Media Men non è altro che l’evoluzione digitale di una pratica consolidata, i whisper network — le voci di corridoio, le conversazioni private. Sono reti di donne che si sorreggono a vicenda, si danno consigli e moniti — le esperienze delle più anziane a guidare le più giovani, in un mondo in cui sono ancora gli uomini ad avere gran parte del potere. Accuse, testimonianze, osservazioni che restavano anonime, entro i confini del “soffitto di cristallo” e di chi vi si trovava sotto. Sono poi arrivati internet e i social network a portare i whisper network a un nuovo livello, e i Glass Ceiling Club degli anni Ottanta sono andati trasformandosi in reti dalle maglie sempre più fitte: le campagne mediatiche, i forum, in grado di raggiungere e proteggere molte più colleghe.
Diverse sono le ragioni per cui le donne vittime di molestie e violenze non si affidano alla procedura ufficiale per denunciare i propri carnefici: prove non sufficienti, la loro reputazione è nel mirino, paura di rappresaglie, timore di perdere il lavoro, una macchina mediatica che incolpa le donne per aver denunciato. Se i whisper network nascono per riempire il vuoto creato dall’inadeguatezza del sistema ufficiale, neanche le voci di corridoio sono immuni dalle imperfezioni: i “sentito dire” si trasformano facilmente in gossip, i legami di amicizia e le convenzioni sociali portano a ritenere false accuse che sono tutt’altro che tali, a scusare o congedare in modo semplicistico comportamenti sbagliati che sono radicati nei luoghi di lavoro. Le liste come Shitty Media Men (nessuno è tanto naive da credere che non ce ne siano altre in giro per il web) arrivano laddove l’impotenza ferma i Glass Ceiling Club — raggiungendo quelle donne che, per estrazione sociale o etnia, non fanno parte dei circoli, talvolta elitari, in cui circolano queste notizie.
Shitty Media Men ha democratizzato il processo di creazione e di apprendimento delle informazioni.
Tra i nomi elencati nella lista figuravano dipendenti di testate prestigiose — il New York Times, il Wall Street Journal, il New Yorker e BuzzFeed. Quest’ultimo ha recentemente licenziato il suo corrispondente dalla Casa Bianca, Adrian Carrasquillo, in seguito a un’indagine interna per commenti inappropriati rivolti a una collega. Il nome di Carrasquillo compariva sulla lista pubblicata a ottobre. Lo stesso è successo al direttore editoriale di Vox Media, Lockhart Steele, licenziato a ottobre per le accuse di molestie sessuali, mentre diversi vertici di Vice hanno lasciato l’azienda in seguito ad accuse simili, emerse nel corso di processi civili. Lorin Stein, editor del Paris Review, si è dimesso lo stesso mese: nel file, il suo nome era evidenziato in rosso per indicare abusi sessuali segnalati da parte di più donne.
Chi ha visionato il documento in quelle prime ore successive alla pubblicazione, l’ha descritto come ambivalente, nessuno ha individuato in modo univoco il suo scopo: era una macchina del fango, un’arma di protezione o un metodo di supporto per le donne?
Molte delle reazioni l’hanno accusato di vigilantismo, altri manifestavano preoccupazione per la carriera degli uomini citati. Gran parte delle critiche, soprattutto quelle firmate da nomi femminili, erano mosse dal timore che bastasse una denuncia falsa, scritta con la protezione dell’anonimato, a far crollare l’intera protesta avviata in questi mesi dai movimenti femministi con #MeToo. Pochi hanno preso questa lista per quello che è — uno strumento di denuncia — né destinato a essere pubblico né convenzionale — che però, a guardare il non esiguo numero di licenziamenti e dimissioni, ha funzionato.
Un elenco pubblico di possibili predatori sessuali fa paura, solleva dubbi di natura morale e legale, ma è anche un grido di aiuto e di giustizia — una voce narrante potente che non può essere silenziata. E questo è ciò lo ha reso scomodo.
Lo Shitty Media Men aveva avuto lo stesso effetto delle denunce nel mondo di Hollywood, e sembrava aver esaurito il proprio scopo, inghiottito dallo scandalo successivo. Invece, lo scorso martedì è ritornato ad essere protagonista, almeno su Twitter. Il tutto è iniziato con un tweet di Dayna Tortorici, editor del magazine n+1, in cui afferma che una rivista americana avrebbe programmato la pubblicazione di un pezzo sulla donna che aveva iniziato la lista. A questa notizia si sono scatenate su Twitter le proteste e gli appelli di giornaliste ed editrici alla rivista Harper’s, che secondo le indiscrezioni aveva commissionato il pezzo a Katie Roiphe per marzo — alcune hanno persino minacciato il magazine di revocare la consegna dei propri contributi. Il pericolo, secondo le opinioni twittate, è quello del doxxing, di compromettere l’anonimato di una donna che ha rotto una cultura del silenzio, riequilibrando le dinamiche di potere che hanno normalizzato comportamenti maschilisti seriali. E a chi dovrebbe essere garantito l’anonimato se non alla parte più vulnerabile — quella che denuncia, la vittima di quell’abuso?
Il clamore suscitato dalla decisione di Harper’s ha costretto l’anonima autrice a fare outing. Si chiama Moira Donegan e ha scritto un esaustivo articolo per The Cut.
Altre, negli scorsi giorni, si sono fatte avanti dicendo di essere le iniziatrici della lista, nel tentativo di proteggerla da reazioni violente. “Temevano che sarei stata minacciata, stalkerata, violentata, o uccisa”, riferisce la Donovan in un passaggio.
Moira Donegan ha perso molto pubblicando quella lista — lavoro, amici —, ed è stata divorata dall’ansia di poter essere messa alla gogna un giorno. Questo timore si è materializzato quando la Roiphe (firma di diversi articoli controversi, nota per le sue posizioni discutibili durante la “rape crisis” degli USA negli anni Novanta) l’ha contattata chiedendole un commento su un pezzo che stava scrivendo, omettendo di rivelarle che invece si trattava proprio del caso Shitty Media Men. Da lì in poi, deve essere stato un crescendo di sospetti, dubbi e paure. Dopo l’indignazione generale sui social media per la scelta di Harper’s, la rivelazione della sua identità sembrava inevitabile, anche ben prima dell’uscita del pezzo di Katie Roiphe. Allora ha deciso di farsi avanti da sola alle proprie, seppure parziali e obbligate, condizioni, spiegando le motivazioni che l’hanno spinta a creare Shitty Media Men e difendendo la necessità di strumenti simili, per quanto rudimentali, in un momento di così rilevante cambiamento sociale per le donne quale è il presente.
“I’ve learned that protecting women is a position that comes with few protections itself,” scrive, quasi amareggiata, eppure, con questa lunga confessione, ci dimostra due cose: che Il soffitto è di cristallo — e forse è destinato a restare tale ancora a lungo —, ma almeno, sotto ogni donna c’è una rete. E ce n’era una anche sotto Moira Donegan.