L’esodo silenzioso dei cristiani palestinesi

I due fattori principali che spingono i cristiani ad andarsene sono le condizioni politiche e la mancanza di posti di lavoro.

L’esodo silenzioso dei cristiani palestinesi

Circa 200 mila cristiani vivono tra Israele e i Territori Palestinesi, in condizioni di vita che l’occupazione israeliana rende sempre più difficili.

I cristiani di Terra Santa sono divisi da un muro. Una barriera di separazione lunga più di 700 km spacca in due una comunità che vive in una terra da sempre contesa. Se l’ebraismo e l’islam contano milioni di fedeli in quest’area, sul suolo sacro per le tre religioni monoteiste i fedeli cristiani sono una presenza esigua, dimenticata, che pian piano sta scomparendo. Una comunità di circa 200.000 persone si divide tra Israele e Territori Palestinesi: i cristiani si trovano in stretta minoranza — circa l’1,3% in Palestina e il 2% in Israele — in una zona ad alta tensione, dove spesso la religione è tutt’uno con la coscienza collettiva dei popoli. Quando si parla di cristiani in questa terra, si parla essenzialmente di cristiani palestinesi, e questo vale anche per Israele, dove gli arabi rappresentano circa l’80% della popolazione cristiana.

La situazione con cui i cristiani sono costretti a convivere nella West Bank spinge molte famiglie a emigrare all’estero. È un esodo silenzioso, che non fa rumore in una terra dove ci sono altri protagonisti a fare la parte del leone. Per capire la condizione dei cristiani che vivono qui bisogna fare un passo indietro, e tornare alle radici del cristianesimo.

Betlemme e gli agglomerati urbani limitrofi costituiscono la zona della Palestina dove vive il maggior numero di cristiani. Il villaggio dove nacque Gesù è oggi una nivea cittadina di provincia che vive essenzialmente di turismo e artigianato locale. La basilica della Natività domina il promontorio con il suo campanile in restauro per mano di una ditta toscana, e la piazza su cui si affaccia è ricca di negozi di souvenir gestiti principalmente da cristiani.

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Betlemme, sul muro che separa Israele dalla Palestina campeggia un graffito che rappresenta il presidente Trump

Ci sono poche strade che collegano Gerusalemme a Betlemme, e ognuna di esse comporta il passaggio obbligato attraverso un check-point. Lasciandosi alle spalle lo zoo di Gerusalemme si può entrare in Palestina passando al fianco della valle del Cremisan, uno dei luoghi simbolo della condizione subordinata che vivono i cristiani palestinesi. Qui i lavori del muro di separazione tra Israele e Territori Palestinesi rischiano di scorporare dalla Palestina l’area che abbraccia il territorio di Beit Jala, che comprende i terreni di 58 famiglie cristiane, un monastero e un convento dei salesiani, con annessa scuola elementare. L’Alta corte di Israele si è pronunciata più volte sul caso, prima proibendo, poi autorizzando la costruzione del muro, realizzato — secondo la Corte — per motivi di sicurezza.

Ci sono poche strade che collegano Gerusalemme a Betlemme, e ognuna di esse comporta il passaggio obbligato attraverso un check-point

La vita dei fedeli non è semplice nella Cisgiordania occupata: per visitare i luoghi santi in Israele i cristiani palestinesi necessitano di permessi che non sempre vengono concessi. In Terra Santa la libertà di movimento per i palestinesi — senza necessità di permessi — è limitata alle zone amministrate dall’ANP; ma la realtà è spesso più infelice: molte strade della Cisgiordania sono de facto gestite e controllate dall’esercito israeliano. Si vive nell’incertezza: a Betlemme per esempio c’è chi, se esce presto la mattina, controlla su Facebook in che parte della città si trovino i militari israeliani, così da evitare di incrociarli prima che la città si svegli. Infatti capita che, quando è notte fonda, gruppi di militari entrino in città per controllare la situazione e operare raid notturni. Spesso fanno saltare in aria la porta di casa di qualche sospettato, e la deflagrazione è come un urlo nella notte, che torna in un istante a immergersi in un silenzio carico di tensione.

Betlemme, una torretta posta sul muro di divisione tra Israele e Palestina. Qui davanti, dopo la preghiera del venerdì, non è strano trovare palestinesi intenti a lanciare pietre contro il muro
Betlemme, una torretta posta sul muro di divisione tra Israele e Palestina. Qui davanti, dopo la preghiera del venerdì, non è strano trovare palestinesi intenti a lanciare pietre contro il muro

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I due fattori principali che spingono i cristiani ad andarsene sono le condizioni politiche e la mancanza di posti di lavoro; non è l’indigenza che li spinge a emigrare. I cristiani palestinesi appartengono alla middle class, sono benestanti, ben istruiti, e hanno stili di vita simili a quelli occidentali.

L’occupazione israeliana non spinge direttamente i cristiani ad andarsene. “Il conflitto porta instabilità in quest’area, e questa instabilità porta molte persone a scappare. Il conflitto è un aspetto molto importante, ma ugualmente importante è la rete di famiglie che si è sviluppata in America Latina, nel Nord America, in Australia. Le famiglie che vivono in quelle aree attraggono molte persone che vivono qui,” mi spiega Adnan Musallam, professore associato di Storia moderna e contemporanea del medio-oriente all’Università di Betlemme. L’Università è il centro pulsante della vita intellettuale di Betlemme, con giovani che ad ogni ora siedono e chiacchierano all’interno del giardino accompagnati dal sottofondo del gorgoglio dell’acqua che zampilla dalla fontana centrale. Qui l’istruzione è molto importante e gli studenti affrontano gli studi con estrema serietà: anche se la disoccupazione giovanile è altissima, raggiungere la laurea è un alto riconoscimento sociale e permette di guardare con un pizzico di ottimismo in più al futuro.

Un cristiano israeliano con al braccio un tatuaggio che raffigura il volto dolente di Cristo nei pressi del monte Tabor, Galilea
Un cristiano israeliano con al braccio un tatuaggio che raffigura il volto dolente di Cristo nei pressi del monte Tabor, Galilea

Spesso l’estremismo islamico viene considerato come uno dei motivi che spingono i cristiani ad abbandonare la Terra Santa. Certo, la bandiera dello Stato Islamico ha passeggiato anche per le strade di Betlemme, e forse negli ultimi anni l’ascesa di Daesh ha spaventato la comunità cristiana. Ma, come ci tiene a precisare il professore, “è una grossa bugia dire che i cristiani se ne vanno per colpa dei musulmani.” Anche un importante sondaggio del 2007 illustrava come la paura del fanatismo religioso rappresentasse la principale causa di emigrazione solo per il 3% dei cristiani della West Bank. Si può invece parlare di frustrazione da parte di una minoranza che negli anni ha visto spesso sfumare i bordi tra l’identità nazionale e quella islamica, e che allo stesso tempo non è riuscita a crescere, per via dell’emigrazione e del basso tasso di fecondità, a fronte dell’aumento esponenziale dei musulmani.

La Cupola della Roccia come appare dal santuario Dominus Flevit posto sul monte degli Ulivi
La Cupola della Roccia come appare dal santuario Dominus Flevit posto sul monte degli Ulivi

Un moto migratorio importante riguarda invece i giovani: molti cristiani se ne vanno durante la giovinezza per studiare all’estero, e una volta fuori capiscono che oltre il muro c’è un mondo libero che può offrire loro delle opportunità. Li accoglie una realtà senza conflitto, ma anche scevra dei retaggi del patriarcato che impera nella società palestinese.

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Una suora guarda l’orizzonte all’alba durante la Marcia Francescana lungo il cammino verso il Monte Tabor
Una suora guarda l’orizzonte all’alba durante la Marcia Francescana lungo il cammino verso il Monte Tabor
Una suora intenta a pregare distesa su di un prato, Galilea
Un ulivo sul Monte del Precipizio, Nazareth
Pellegrini e frati all’interno della chiesa dell’Assunzione di Maria in occasione della festa dell’Assunzione
Una lampada all’interno della chiesa dell’Assunzione di Maria a Gerusalemme
Una pellegrina visita il Getsemani
Un frate prega seduto sull’erba, Galilea

Ho incontrato molti giovani cristiani lungo la Marcia Francescana, un pellegrinaggio che si svolge nell’afosa Galilea e si conclude sulla vetta del monte della Trasfigurazione, il Monte Tabor, in occasione della celebrazione del sei agosto. Il cammino coinvolge la gioventù del Patriarcato latino di Gerusalemme, la diocesi che si estende su tutta la Terra Santa, presente in ben quattro stati: Israele, Territori Palestinesi, Giordania e Cipro. La diocesi è il simbolo dell’unità cristiana in una terra martoriata dai conflitti. In queste occasioni i ragazzi che vivono dall’una e dall’altra parte del muro possono incontrarsi e accantonare per qualche giorno la fatica quotidiana dei check-point e dell’occupazione militare. Ma anche partecipare a questo genere di attività non è scontato. Proprio a ridosso dell’evento ad alcuni ragazzi di Betlemme è stato negato il permesso — che viene concesso dalle autorità israeliane — per partecipare al pellegrinaggio.

Filo spinato e Custodia di Terra Santa, su di una collina fuori Gerusalemme, di fronte a un piccolo convento
Filo spinato e Custodia di Terra Santa, su di una collina fuori Gerusalemme, di fronte a un piccolo convento

È esattamente così la vita dei palestinesi: legata ad una burocrazia coercitiva e al caso.

Le ingiustizie picchiano sulla pelle dei palestinesi come grandine, ma i giovani hanno difficoltà a raccontare ai giornalisti la realtà di una vita che per loro è il quotidiano scorrere di una normalità malata. Preferiscono cantare. Cantano e ballano con foga i giovani cristiani: il cammino che come un serpente si arrampica lungo il monte è un lungo inno a Dio. Per molti di loro il futuro ha la forma di un inestricabile bivio: da una parte la stabilità politica, il secolarismo e la libertà nei costumi che offre l’Occidente; dall’altra l’instabilità, il calore familiare e la vicinanza della comunità.

Pellegrine a Gerusalemme
Pellegrine a Gerusalemme

Dallo sguardo di questi ragazzi si capisce che la partenza non è mai agognata, e una volta fuori il pensiero li riporta sempre tra gli ulivi di casa. Chiedendo a un trentenne cristiano che si è trasferito in Grecia più di dieci anni fa come si vede tra cinquant’anni, mi ha risposto: “Non conosco il futuro della Palestina. Ma l’unica cosa che spero per ora e per i prossimi cinquant’anni è avere la possibilità di vivere qui in pace, in una situazione stabile, con tutta la famiglia, tutti assieme. E avere la possibilità di vivere come tutte le persone nel resto del mondo.”

Una risposta scontata, ma che non trova una continuità nei fatti a causa di un annoso e intricato conflitto che si trascina avanti come un peso morto, solcando la terra dei padri e dei profeti. Lì, tra i sussulti della storia, un’esigua minoranza permette al mondo cristiano di restare ancorato a quella terra santa dove tutto ebbe inizio.

Riprese di Samuele Maccolini e Pietro Saccomanno


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