Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Questa settimana abbiamo intervistato Francesco Levy, presente quest’anno al Festival Fotografia Europea.
Ciao Francesco, è forse la prima volta che ci occupiamo di progetti fotografici di stampo più concettuale. Vorrei sapere come definisci il tuo approccio alla fotografia, prima di parlare del progetto.
Non mi definirei un fotografo concettuale, nel senso che per me la parte estetica, la stato dell’immagine è importante. Sono stato definito in tanti modi, ma una definizione che mi hanno dato e che ho fatto mia è quella di reportage artistico. Mi piace raccontare una storia, più storie, da un punto di vista personale, che però trattano dei temi più ampi, che si rifanno appunto ad una fotografia o un progetto di reportage.
Il progetto in questione non rientra propriamente in questo caso in quanto si tratta più che altro di fotografie evocative, non c’è nulla che documenti direttamente quello che succede del momento rappresentato.
Potremmo fare una differenza tra le singole fotografie e i singoli documenti che compongono il progetto e il progetto nel suo complesso, in questo senso parlo di concettuale.
Diciamo che ci sono approcci diversi: uno, sicuramente importante all’interno del progetto, è appunto quello concettuale. Non tutte le foto sono immediamente comprensibili, c’è qualcosa che ci si deve chiedere quando si guardano le foto, lo spettatore è invitato ad andare a fondo delle fotografie.
Il processo di recupero della memoria che ho svolto attraverso vecchie foto della mia famiglia è sicuramente una operazione concettuale in quanto le immagini sono state rielaborate con interventi grafici ben visibili.
Ho guardato le tue fotografie più e più volte per cercare il filo della storia: trovato un segno – una data, un nome, una città – ho provato a cercarlo anche nelle altre foto, senza trovarlo. Mi sono così perso in un girotondo molto lungo, senza trovare una chiave di lettura univoca. C’è, ed è nascosta tra le tue foto, o si tratta più di un flusso di coscienza?
È un flusso di coscienza, esattamente. Il progetto è strutturato come se io andassi a recuperare le memorie — ma di qualcosa che non ho mai conosciuto e che posso solo provare a immaginare. Si tratta di fatti raccontati da qualcun altro. Il progetto racconta la mia famiglia, ma sono storie di membri che io personalmente non ho mai avuto l’occasione di conoscere, o che ho conosciuto in un periodo della vita in cui ero troppo piccolo per potermene ricordare. L’operazione che ho fatto consiste nell’aver collegato delle immagini a queste persone, e lo sviluppo di questo racconto è in forma di flusso di coscienza. Un filo conduttore che c’è, un po’ nascosto ma spesso è presente, è il mare. Il mare unisce un po’ tutte le storie che racconto all’interno del progetto.
Parlami della memoria. Cosa ti ha spinto a scavare nella tua vita personale, e il metodo che hai usato per fare emergere questo aspetto.
Il tema della memoria mi è caro a prescinedere, ma sicuramente ha svolto un ruolo importante un mio professore, Luigi Viola, durante gli studi alla Accademia di Belle Arti di Venezia.
Luigi Viola è un artista abbastanza affermato, lavora sui processi della memoria, attraverso opere concettuali. Avendo lavorato con lui in atelier chiaramente sono stato influenzato: ma la mia strada è diversa dalla sua. La sua produzione è incentrata molto su installazioni e video, ma di lui quello che più mi ha affascinato è il modo in cui parla del suo lavoro e di come opera.
Partendo da questa esperienza di affinità di temi, ho provato a trovare una chiave di lettura per i miei lavori. Lavorare sulla famiglia è stato abbastanza istintivo perché anche nei lavori o nelle ricerche precedenti mi rendevo sempre conto che le cose che mi venivano meglio riguardavano aspetti della mia vita, che si trattasse di me direttamente o di cose che mi succedevano.
In questo lavoro si tratta proprio della necessità di ricostruire la storia della mia famiglia.
Cosa ti ha spinto ad iniziare questo progetto?
Una sera a tavola avevo parlato con mia madre di questa idea, da lei avevo capito che in effetti i membri della mia famiglia avevano avuto delle storie interessanti. Sapere poche cose all’inizio è stato sicuramente un vantaggio, ha avviato una lunga fase di ricerca e scoperta.
Tutto è partito dal materiale di archivio, che era tanto, su cui iniziare a lavorare, su cui poter mettere le basi per poi costruire il resto. Tornando alla memoria la mia operazione è stata quella di far emergere una storia da un archivio che, al contrario, è una operazione di conservazione della memoria.
Hai coinvolto la tua famiglia?
Premetto che la mia non è una famiglia numerosa, a Natale siamo in 5. Mi sento l’imbuto della famiglia e di tutte le storie ad essa legate: sono l’ultimo erede di questo vissuto complessivo.
I miei familiari hanno partecipato attivamente, senza di loro il progetto sarebbe sicuramente stato diverso; il loro contributo è stato importante. Con loro mi sono potute confrontare su tante cose, si sono dimostrati anche degli acuti osservatori. Gli facevo vedere quello che stavo portando avanti, se capivano le mie fotografie e capivano dove io volessi andare a parare. Inoltre il loro era un punto di vista interno, oggettivo, perché conoscono le storie.
C’è un aneddoto che hai scoperto in questa tua ricerca che vuoi raccontare?
Sì, naturalmente ho scoperto un sacco di cose. Per esempio mio nonno paterno scriveva delle poesie bellissime, e non ne avevo idea. Lui è morto quando io ero molto piccolo, quindi mi è un po’ mancata la figura del nonno. Scoprire poesie scritte a mano o a macchina, su questi fogli ingialliti è stato molto bello. Ho scoperto che era una persona gentile. Pensa che ha stupito anche mio padre, anche lui ne era all’oscuro.
Le tue fotografie sono introdotte da quello che ho letto come un manifesto, più che una semplice introduzione: “There are as many ways to tell a story as there are to lie about it. Mine is a journey across the tales and personas that together formed the core of my family.”
Se ci pensi è così, quando racconti una storia dove sta il confine tra cio che è vero e ciò che tu rielabori? Puoi raccontare una cosa che ti è successa inventando o omettendo determinate cose, e così ho fatto in questo progetto.
Mi piace dire che si può intendere come un romanzare, non al fine di rendere qualcosa semplicemente più bello ma per un fatto quasi fisiologico. Se penso a qualcosa che non ho vissuto, sicuramente me la immagino diversamente da come è successa veramente. Ma dato che sono io che sto ricostruendo la storia della mia famiglia, non mi interessa sapere se sia andata effettivamente come la immagino io. La racconto così, quindi è andata così.
Mi spieghi il perché del titolo di questo progetto?
Azimuths of Celestial Bodies, in italiano significa Azimuth dei corpi celesti. Questo titolo l’ho dato a progetto concluso, quando ormai avevo completato tutto le sue parti. Ci ho pensato veramente tanto al titolo da dare a questo progetto, ma anche in questo caso l’archivio mi è stato d’aiuto. Nelle mie ricerche ho trovato un quaderno che si intitolava proprio Azimuth dei corpi celesti, un quaderno delle rotte che usano i comandanti delle navi per orientarsi con tutte le coordinate.
Il quaderno era di mio nonno che era un comandante di navi mercantili, lo trovai fra le cose che mia madre aveva conservato: i corpi celesti li ho interpretati un po’ come se fossero le storie della mia famiglia.
***
Francesco Levy
Francesco Levy nasce a Livorno il 23 gennaio del ’90. Nel 2009 si trasferisce a Venezia dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Nel 2013 si laurea con una tesi in estetica dei new media. Dal 2013 al 2016 frequenta il corso triennale di fotografia alla Fondazione Studio Marangoni di Firenze dove consegue il diploma e vince la borsa di studio ex aequo come miglior studente del triennio.
Nel 2017 espone a Milano nella seconda edizione dell’International Photo Project curata da Elio Grazioli, viene selezionato come uno dei sette fotografi under 35 finalisti di LOOP | Giovane Fotografia Italiana nell’ambito del festival Fotografia Europea, è uno dei dieci finalisti del Premio Celeste | Visible White Photo Prize curato da Laura Serani, partecipa alla mostra collettiva “Questioni di Famiglie” negli spazi del CIFA di Bibbiena, viene selezionato come uno degli otto artisti italiani che parteciperanno alla prossima edizione della biennale d’arte contemporanea JCE Jeune Création Européenne inaugurata l’11 Ottobre a Montrouge, Parigi. Inoltre il suo lavoro, insieme a quello di altri 9 fotografi italiani, farà parte della mostra “Mala yerba” curata da Alain Cabrera Fernandez, Elio Grazioli ed Alessandro Malerba che avrà luogo nella sala principale della Fototeca de Cuba in occasione della “Settimana della Cultura” organizzata dall’Ambasciata Italiana a L’Avana. Vive e lavora in Toscana.