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La musica non ha confini, si fonde, evolve e cambia a seconda delle influenze culturali a cui è sottoposta. Qualunque sia la sua genealogia, la musica sfugge alle gabbie del passato per esplorare un mondo in divenire.

Lo strumento contemporaneo adottato da questa continua ibridazione è stato fin dal dopoguerra il music sampling – in italiano campionamento musicale – ovvero una tecnica compositiva che permette di registrare e integrare all’interno di un brano campioni (o sample) estratti da altre tracce musicali.

Oggi la sua naturale integrazione all’interno di produzioni mainstream è data per scontata, portandoci a definire la nuova era musicale come post-sample.

Non è facile puntare una bandierina su una linea temporale e dire, “qua hanno iniziato ad usare i campionamenti.” La musica, l’abbiamo detto, ha sempre vissuto per ibridazioni: come la musica mizrakhit si evolve nella cultura israeliana importando suoni dalla tradizione araba, africana e greco, così il rebetiko greco assimila al suo interno modalità asiatiche, mediorientali e turche. La lista potrebbe continuare all’infinito con il flamenco spagnolo, il blues afroamericano, il čoček dell’Europa dell’Est, ma quello che veramente conta sono i rapporti che i generi intrattengono e come questi rapporti siano stati evidenziati e messi in luce con l’evolversi delle produzioni moderne e delle tecnologie legate ai sample.

Con la musica concreta – espressione musicale nata nel dopoguerra dalla mente del compositore francese Pierre Schaeffer – il principio della manipolazione del suono entrava all’interno del dibattito musicale. La musica concreta partiva dal suono e dall’ascolto, più che da concetti astratti propri dello studio classico. Insieme a Pierre Henry e Andrè Moles, Schaeffer fonda il Gruppo di ricerca di musica concreta.

“Noi abbiamo chiamato la nostra musica concreta, poiché essa è costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una costruzione diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l’aiuto, divenuto impossibile, di una notazione musicale tradizionale.”

Da qua in poi la strada è spianata alla sperimentazione tecnica oltre che culturale.

Già negli anni Cinquanta, la musica concreta si trasformava, assumendo sembianze più definite grazie a primi timidi passi come The Flying Saucer, composta nel 1956 da Bill Buchanan e Dickie Goodman. Il brano, che raggiunse subito i primi posti delle classifiche dell’epoca, è considerato il primo esempio di mashup, poiché mescolava sapientemente la voce di uno speaker radiofonico alle prese con un’invasione aliena con i più famosi ritornelli dell’epoca, da Elvis Presley a Chuck Berry. L’esperimento di Buchanan e Goodman scosse alla base l’establishment musicale dell’epoca, che non sapeva come comportarsi nei confronti dell’uso dei sample, tanto da far dichiarare: “se non fermiamo una cosa del genere, nulla sarà al sicuro nel nostro business.”

Ma la vera rivoluzione partì qualche anno dopo, nel 1965, grazie all’invenzione di uno degli strumenti che per primo si conquistò il titolo di campionatore e che ancora oggi è considerato il nonno di tutti i campionatori: il Mellotron. Attraverso nastri preregistrati attivati da una tastiera, il Mellotron poteva riprodurre una serie vastissima di suoni, limitati però alla durata di otto secondi. Divenne famoso soprattutto per l’intro di Paul McCartney in “Strawberry Fields Forever.”

Se la musica concreta aveva rivoluzionato il concetto di produzione musicale, a partire dagli anni Settanta la strumentazione a disposizione di musicisti e compositori si metteva al passo coi tempi, rivoluzionando i meccanismi  del pensiero musicale. Mancava però ancora un genere in cui poter incanalare il potenziale del sample, un universo musicale in cui il campionamento non fosse più contorno, ma protagonista delle creazioni degli artisti.

Mentre tramontava l’era dei Beatles, in un quartiere periferico di New York iniziava a svilupparsi la cultura underground dei block party, concerti tenuti in case private in cui per la prima volta facevano la comparsa le figure dei Dj. Nel Bronx degli anni Settanta nascevano le prime figure di riferimento per quella che, da lì a poco, sarebbe stata la scena hip-hop newyorkese.

La loro fede era il ritmo e la loro bibbia il vinile: nomi come Grandmaster Flash e Dj Kool Herc iniziavano ad attirare l’attenzione su questi concerti privi di strumenti, in cui il pubblico rimaneva inebriato dal suono prodotto da due piatti i cui ritornelli si ripetevano e alternavano in sintonia. Ci volle poco per capire che quei suoni così ritmati, in cui i vari blocchi (breaks) venivano scanditi con perfezione chirurgica, potevano essere la base per un nuovo genere.

 

Dai seminascosti party del South Bronx, l’hip hop invadeva finalmente le strade di New York e si diffondeva alla ricerca di nuove sonorità capaci di ospitare le bars dei nuovi poeti di strada. Ma perché cercare qualcosa di nuovo, quando il blues, il jazz e tutta le tradizioni musicali che li aveva preceduti ospitavano un’infinità di materiale che poteva – ora sì senza ostacoli tecnici – essere smontata e riadattata a piacimento.

Dj e i rapper ora lavoravano fianco a fianco per costruire vere e proprie canzoni, con varianti melodiche pensate intorno al testo e viceversa. Strumenti come il Fairlight CMI aiutarono questo sviluppo, dando la possibilità di campionare i suoni e utilizzarli all’infinito. In questo processo di decostruzione e ricostruzione, il più famoso e riconosciuto sample è ancora oggi quello dei The Witson: i sei secondi della loro “Amen, Brothers” venne ribattezzato l’amen break, così essenziale e funzionale da essere stato ripreso più di 2,000 volte nella storia della musica moderna.

Ed ecco che i grandi classici, quelli che solo dieci o venti anni prima avevano scalato le classifiche, ritornano nelle discoteche, nei negozi di dischi e nelle case degli appassionati più hip. James Brown, Lee Dorsey, Joe Tex, gli Aerosmith e molti altri incontrarono i Public Enemy, i Run-DMC e i Tribe Called Quest.

Tell the truth, James Brown was old
‘Til Eric and Rakim came out with ‘I Got Soul’
Rap brings back old are ‘n’ be
And if we would not, people could’ve forgot
—Stetsasonic, “Talkin All That Jazz”

La lista potrebbe andare avanti all’infinito visto che oggi la tradizione che unisce hip-hop e campionamenti è più viva che mai. I più famosi artisti della scena rap hanno infatti trovato il modo di rispolverare vecchie perle introducendole nei loro beat. Da Beyoncé che cita le Chi Lites in “Crazy in Love” a Kendrick Lamar che in “Bitch Don’t Kill My Vibe” riprende il tema del gruppo danese Boom Clap Bachelors in “Tiden Flyver.”

E di nuovo, in questo fiume in piena che si ramifica, si divide e poi si ritrova, la cultura musicale scopre un altro tassello del suo mosaico: la musica elettronica, nata anch’essa dall’esperienza americana dei Dj. È con l’elettronica che il sample amplifica le proprie radici nella tradizione musicale, i musicisti hanno ora mille voci e mille suoni da montare, scombinare e assemblare. Negli ultimi anni questo fenomeno ha visto degli esempi molto particolari.

I Matmos, duo elettronico con sede a San Francisco, hanno ripreso la tradizione della musica concreta di Schaeffer creando album che partono dai campionamenti di oggetti comuni — l’ultimo, intitolato Ultimate Care II, parte dai suoni prodotti da una lavatrice.

Mentre artisti come Cicierega e Girl Talk traducono in citazioni post-moderne i campionamenti di brani riconoscibilissimi, avviando quasi un processo di memefication a disposizione dell’ascoltatore.

Negli ultimi anni la questione sample si è scontrata con il principio del fair use, l’uso creativo di contenuti appartenenti ad altri artisti o etichette discografiche, portando l’attenzione sulle beghe legali che il campionamento può produrre. I detrattori sostengono la difesa dell’opera originale, senza però tenere conto che oggi il campionamento può assumere la forma di uno strumento espressivo al servizio di una modernità plurale, intessuta di incroci storici e culturali. Limitarne l’applicazione sarebbe limitare qualcosa che prima o poi, che lo si voglia o meno, entrerà nella pratica comune.

I migliori esempi dell’uso di campionamenti nel panorama musicale moderno provengono proprio dal nostro paese, che, con la sua vena mediterranea, luogo di incontri e di scambi, ha sempre intrattenuto rapporti con altre culture — in barba a Fedez e ai Thegiornalisti.

Riprendendo la secolare tradizione di Alan Lomax, etnomusicologo americano che nei primi anni del Novecento studiò e registrò i suoni e le voci blues dell’america nera, in Italia negli ultimi anni sono apparsi artisti che di questa ricerca musicale e antropologica hanno fatto il centro del loro lavoro. Stiamo parlando di artisti come Populous, Clap! Clap! e Khalab, Ckrono, Nan Kolé e molti altri, tutti musicisti che hanno girato il mondo e l’hanno raccontato.

Con i suoni della Siberia, dell’America Latina e l’Africa nera, ma anche la Sicilia e la Sardegna gli artisti dell’era post-sample, abbracciano e espandono la comunicazione culturale che è sempre stata possibile grazie alla musica.

Come scrive Iain Chambers – antropologo inglese – nel suo Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi, “è nel mobile radicarsi e diramarsi dei suoni che ci troviamo al cospetto del cuore politico di una poetica emergente […] trasportati, ci troviamo senza casa nell’esperienza di riconoscere l’altro, ed è qui che ci ritroviamo temporaneamente immersi in un dialogo tra eguali.”

O come spiega in un Ted Talk il produttore Mark Ronson: “Non posso farci niente, ho tutte queste cose che amo e con cui voglio fare casino.”


Vi aspettiamo questa sera alle 21 per ascoltare Populous e Clap! Clap! al Magnolia, in una nuova serata di wow, roba fresca a Milano. Noi ci vediamo prima, per le 18:30, in diretta su Facebook. A dopo!