Dopo un ritorno impeccabile ma non entusiasmante, Rian Johnson riporta Star Wars alle proprie vere origini firmando il film più maturo della saga.
(Questo articolo non contiene spoiler per il nuovo film della saga, Gli Ultimi Jedi. Leggete tranquilli.)
Qualsiasi lettura politica di Guerre Stellari parte zoppa: la saga è sì frutto della mente di un regista californiano estremamente liberal, ma è anche di una semplicità tale — nel bene e nel male — da poter essere considerata, al massimo una parabola dei valori di multiculturalità e progressismo che sappiamo essere cari al suo autore, George Lucas.
I valori dietro la costruzione embrionale del mythos di Star Wars sono particolarmente evidenti nel primissimo film della saga. Una nuova speranza, nel contesto del lavoro di world-building con cui Lucas dipinge lo sfondo della sua vicenda, introduce rapidamente lo spettatore ai grandi valori dell’opera: il potere non può che corrompere — “Darth Vader tradì e assassinò tuo padre” — l’egualitarismo — “La Forza (…) è creata da tutte le cose viventi. Ci circonda, ci penetra. Mantiene unita tutta la galassia” — di fronte al diffuso razzismo nella società — “Ehi! Qui non serviamo quei tipi lì,” dice il barista della bettola di Mos Eisley indicando i droidi di Luke.
Non è insomma difficile posizionare dove stia lo spirito dello opera, e del suo creatore, che solo due anni fa parlando della sua opera originale lamentava di avere avuto dagli studio meno libertà creativa “dei registi sovietici.”
Guerre Stellari, nel suo embrione, è una metafora della lotta contro l’imperialismo statunitense — i Ribelli sono ispirati direttamente ai vietcong, l’Impero è il simbolo evidente dell’imperialismo, e il suo imperatore è chiaramente ispirato all’allora presidente Richard Nixon.
I valori semplicistici di Guerre Stellari, che al di fuori dei grandi temi ha lo spessore politico di un foglio di carta velina, sono uno dei pregi della saga quanto uno dei suoi principali difetti.
TARKIN: Il Senato Imperiale non ci creerà più nessuna preoccupazione. Ho appena ricevuto notizia che l’Imperatore ha sciolto il Consiglio definitivamente. Gli ultimi avanzi della vecchia Repubblica sono stati spazzati via.
TAGGE: È impossibile! Come fa l’Imperatore a mantenere il controllo senza la burocrazia?
TARKIN: I governatori regionali ora hanno il controllo diretto dei loro territori. La paura terrà in buon ordine i sistemi locali. La paura di questa super arma offensiva.
Questo dialogo, nel primo film del ’77, è l’apice del commento politico della serie — sa di cosa sta parlando, lo dice semplicemente, e aiuta a inquadrare la posizione politica degli antagonisti. (Carta velina, dicevamo.)
Tutto si fa piú complicato vent’anni dopo, quando Lucas inizia a lavorare alla nuova trilogia. Se l’autore di per sé non ha fatto mezzo passo indietro nelle proprie opinioni politiche, la trilogia prequel prova disperatamente a raccontare una storia infinitamente piú complessa della trilogia originale, e fallisce clamorosamente. Così, sì, il primo monologo di Anakin Skywalker cita testualmente, parola per parola, un discorso di George W. Bush, ma i valori della serie originale escono infangati da una trama che non sa dove andare, e un autore che non riconosce piú come i suoi temi avevano ispirato una generazione.
(Carta velina, sì.)
Dopo la trilogia prequel la Forza non è piú un’energia egualitaria, ma qualcosa a cui possono attingere solo prodigi dal corredo genetico specifico, i Jedi non sono piú un descritti come un ordine monastico pacifista, ma sono una specie di braccio armato ninja del governo galattico. La corruzione è inerente al potere, anche quando questo è rappresentato da un governo democratico. La Galassia non è piú abitata da una bellissima diversità di specie, ma da una serie di stereotipi etnici usati principalmente a scopo comico. Ignorando tutti gli altri difetti, autoriali e cinematografici, della trilogia prequel, il suo difetto principale è proprio di aver minato le fondamenta ideologiche della serie: no, bambini, non potete essere Jedi, perché non siete nati con le cose giuste nel sangue; no, la Democrazia non funziona, perché tanta gente è stupida e finirà per dare il potere al primo tiranno che incontra, naturalmente.
La discesa di Guerre Stellari da parabola progressista a polpettone superomista, che si interessa soltanto alla propria famiglia di semidei, è evidente già dall’ultimo film della prima trilogia, quel Ritorno dello Jedi dove Lucas si fa piú esplicito nei propri riferimenti al Vietnam, ma perde di lucidità sui bastioni narrativi della propria saga, che diventa sempre di più una saga familiare.
La discesa di Guerre Stellari da parabola progressista a polpettone superomista è già evidente nel Ritorno dello Jedi
È in questo contesto di generale disarmo ideologico che Disney si è trovata nelle mani la saga. Il colosso, noto per sfornare film che non fanno male a nessuno ma che non farebbe male a nessuno nemmeno se non esistessero, voleva chiaramente ricondurre la serie nei binari dei primi due film originali, e l’ha fatto, sostanzialmente, rifacendo due volte Una nuova speranza.
Non si può criticare la produzione per non aver lavorato forte per ricostruire le basi di inclusivismo di Guerre Stellari, non con una ma due protagoniste femminili e un comprimario di colore con una sotto-trama ben definita e che non lo relegava in secondo piano rispetto al resto del cast, anzi che serviva in larga parte come stand in per il pubblico — un passo avanti gigantesco dai precedenti sei film, che avevano seguito strettamente la formula di “le avventure del ragazzo biondo e del ragazzo castano e della loro sorella / partner / compagna segreta.”
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Ma la verità è che Il Ritorno dello Jedi concludeva abbastanza solidamente la serie, e il primo sequel, così tanti anni dopo, doveva fare i salti mortali per giustificare la propria stessa esistenza. C’è una Nuova Repubblica, ma i nostri protagonisti sono ancora una Resistenza, perché il loro governo non vuole combattere contro i cattivi che sono rimasti (???) e poi i cattivi uccidono tutti quelli del nuovo governo praticamente off-screen per riportare lo scontro nel contesto della saga precedente, ma con nomi nuovi per le due formazioni. Che fatica.
In parte grazie al lavoro di nettezza urbana narrativa di J.J. Abrams, Rian Johnson può confezionare un film di Guerre Stellari completamente diverso: un film ben organizzato, profondamente politico — ma non “di commento.” Semplicemente, il regista, forse l’autore piú maturo ad avere mai toccato la saga, ha saputo riconoscere cosa rende la serie così speciale, e ha saputo costruire una nuova novella politica mitica, in cui tra una decade sicuramente potremo leggere metafore contemporanee quanto quelle che è possibile leggere oggi.
È tutto un altro film rispetto a Rogue One dello scorso anno, che però non aveva nemmeno il coraggio di trattare con gravezza la cattiveria di un impero genocida. (Una nuova carta velina.)
Gli Ultimi Jedi è un film che parla di due cose, sostanzialmente: il potere che corrompe, e la responsabilità di una nuova generazione di affrontare i drammi che la precedente gli ha lasciato. Star Wars non potrà mai piú non essere una saga familiare — purtroppo — ma per la prima volta in 37 anni i suoi eroi non lo sono piú per predestinazione, ma per scelta, per coraggio, perché sono persone migliori di chi le ha precedute.
In un contesto storico in cui sempre piú spesso l’attivismo è visto come lotta futile contro poteri inamovibili, è così rinfrancante vedere la serie tornare alle proprie radici, ad una lotta tra il bene e il male che è informata dalla necessità politica, dalla giustizia, e non da vani tentativi di costruire una nuova epica classica. È un film che lascia sperare in un futuro migliore, un futuro multiculturale, di persone che alla difficoltà rispondono con resistenza.
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