Dopo quasi vent’anni, chiude uno dei locali storici per la musica dal vivo a Milano. Ne abbiamo parlato con il suo fondatore e proprietario, Massimo Genchi.
“Ti infastidisce se fumo?” mi chiede a metà intervista Massimo Genchi, “papà” della Salumeria della musica di via Pasinetti, centro nevralgico della bella musica a Milano per quasi vent’anni, ora alla sua ultima stagione. Per capire il perché di questa scelta gli ho scritto su Facebook, abbiamo fissato un incontro e sono andata nel suo “antro”.
L’antro è il piccolo studiolo dentro al locale dove Massimo ha vissuto per diciassette anni — durante le stagioni è mancato solo cinque giorni in tutto — e lo si capisce dalle foto, dalle carte e dai libri accatastati. Noto un libro su Pino Daniele e lo guardo per chiedergli che ne pensa, ma mi precede: “Degli italiani è il migliore per me.” Amandolo molto anche io, mi sento subito a casa, e la chiacchierata inizia.
Facciamo un passo indietro: com’è nata la Salumeria?
È nata il 31 dicembre 1999, a cavallo col nuovo millennio. Nessun socio, sono stato sempre io da solo. Mio padre aveva un albergo e mi ha trasmesso la passione per la musica, in particolare per il jazz. Ad albergo chiuso mi sono messo a cercare un luogo adatto per farne il mio locale e questa ex fabbrica di catene faceva al caso mio.
Balziamo all’oggi: perché chiudi?
Per un motivo molto semplice. La mia passione principale è e resta il jazz. Nei primi dieci anni su una settimana di programmazione, cinque erano di jazz e poi nel week-end mettevo qualcosa di più “commerciale” se così possiamo dire, ma parliamo sempre di soul e funky di qualità. Purtroppo il jazz non tira più e nel tempo abbiamo dovuto correggere il tiro, sennò saremmo chiusi da una decina di anni. Dovendo quindi fare musica che non incontra i miei gusti, mi è passata la voglia. Visto che l’ho sempre considerato un lavoro fatto per passione, se devo programmare musica che non mi piace, allora cambio lavoro.
Gestire un locale tanto attivo non è una passeggiata. Hai qualche aneddoto che vuoi raccontare?
Un episodio divertente risale al 2002, quando Norah Jones fece qui in Salumeria il suo primo concerto al mondo. L’anno dopo vinse due Grammy e vendette 18 milioni di dischi, quindi dalla Salumeria passò direttamente al Forum e proprio durante quella serata, parlò per venti minuti del concerto qui. Un arcinoto giornalista di musica ne parlò nel suo pezzo e riferendosi a questo racconto disse: pensate, ora ha suonato al Forum ma l’anno prima, a Milano, aveva suonato in una macelleria. Fece abbastanza ridere.
O piangere. Come mai l’idea di questo format cibo e musica?
Sono un gran consumatore di musica e son sempre andato a milioni di concerti. Specialmente a quelli jazz che sono spesso ambientati in posti angusti, fumosi e casarecci. Tagliere, bicchiere e buona musica sono sempre un piacere. Trovandomi a progettare il mio locale, decisi di chiamarlo col nome più brutto del mondo, amplificando questi due concetti.
Oggi aprire un locale come questo, a Milano per di più, sembra un’impresa da milionari.
All’epoca era un pelino più facile. Appena deciso di aprire il locale ho fatto il piano di che budget avevo, come usarlo, come trovare finanziamenti, come aprire. Cerco vari posti, ne vedo un centinaio, non me ne piaceva nessuno. Entro qui e decido che è lei: la vecchia fabbrica sarà la mia nuova casa. Lo spazio era molto diverso da come lo vedi ora, molto diviso. Abbiamo tirato giù tutto lasciando solo il perimetro e il tetto. Ho strutturato un progetto, l’ho presentato, mia nonna mi ha prestato cinquanta milioni di lire, ho firmato quintalate di cambiali.
Ha preso piede subito. Avemmo la fortuna che Pat Metheny voleva una location piccola per il suo concerto milanese e scelse nientemeno che noi. Ci scoprirono in molti e da lì iniziammo a faticare davvero. Sai, gestire un locale in dieci persone, con un programma tanto fitto non è immediato. Io poi sono tignoso, non ho mai accettato troppi compromessi, puntando sempre su un livello qualitativo alto. Per molti anni ci sono riuscito, ma ultimamente stavo facendo sempre più fatica, perché la gente cerca più la musica indie e i cantautori moderni che non incontrano il mio gusto. Anche la scena rap o trap la rispetto, ma non è quello che voglio fare.
Hai detto: questo ambiente non è sempre meritocratico, soprattutto per i musicisti.
Per i musicisti è un problema enorme. C’è una miriade di bravissimi che campano solo con le lezioni. Non ci sono più posti dove andare a suonare e quelli che ci sono devono anche pensare a rientrare con le spese, quindi spesso non è possibile dare spazio a tutti quelli che si vorrebbe e che lo meriterebbero. I locali che fanno musica sono sempre meno e chi c’è è sempre meno serio. Spesso durano poco perché non riescono a guadagnare dopo sei mesi. In questo lavoro, se vuoi farlo, devi investirci soldi, fatica e passione e i risultati non sono mai immediati. Spesso non ci si sta dietro col budget e allora si ripiega su dj set o aperitivi.
Per quanto riguarda la meritocrazia sono convinto che se la Salumeria fosse a Parigi sarei milionario.
Il problema grosso è poter proporre cose belle e sconosciute. Devi sempre bilanciare diversi aspetti della programmazione, se bastasse essere bravi sarebbe il lavoro più bello del mondo. Devi valutare quanto costa il cachet, a quanto vendere il biglietto, quanto pubblico si può creare. Non chiedo mai a nessun artista di portare gente. Non condanno chi lo fa, ma non è un mio modus operandi. Non ho mai applicato l’equazione “in base a quanta gente mi porti, suoni o meno.”
In diciassette anni qual è il concerto che più ti è rimasto nel cuore?
Ti direi “nomoni” ma non sarebbe vero. Ci sono concerti più piccoli che ti danno molto sul piano umano. Nel mio cuore resta soprattutto la grande famiglia creatasi con i musicisti che gravitano spesso in Salumeria. Il piacere è stato ascoltare buona musica, ma anche la preparazione, il dopo, l’atmosfera familiare. Pat e Norah li metti nel curriculum.
Viaggi spesso per scoprire nuovi artisti da invitare?
Viaggiavo di più una volta. Ora col web si trova tutto più facilmente. Potessi viaggerei sempre, ma in diciassette anni di Salumeria sono mancato cinque giorni, perché gestire un locale richiede impegno e presenza. Una volta andavo anche di più ai festival. Se posso vado ancora, ma nel jazz, la mia grande passione, resta difficile scoprire cose nuove. Ci sono focolai in Nord Europa, Svezia, Finlandia, Africa, ma in generale si è fermato sulle sue radici, faticando a trovare qualcosa di nuovo.
Com’è il rapporto con gli altri gestori? C’è contatto, scambio?
Scambio per nulla per via della mentalità vigente in questo campo. Contatto molto, con alcuni è diventata anche amicizia. Conosco bene Max del Nidaba, al Blue Note ci vado, ma c’è da dire che noi “localari” siamo sempre rinchiusi nel nostro locale e magari ti incroci alle due di notte in un bar perché mangi un panino. È raro incontrarsi in altri frangenti. Poi io i miei cento concerti l’anno me li vedo, ma abbiamo tutti la nostra tana.
Tu hai vissuto un’epoca molto bella e stimolante per la musica. Credo che le esperienze che si ricordano e ci rendono le persone che siamo siano quelle vissute tra i 20 e i 30 anni. Poi si invecchia, ma la persona si definisce lì. Sarà anche per questo che ti trovi meno a tuo agio con la musica “nuova”?
C’è una evidente parabola discendente, ma quest’anno l’ultimo disco di Brunori Sas è stato un capolavoro. Adoro Elio e le storie tese, Bruno Mars, gli Snarky Puppy. La scena trap la conosco bene perché ho un figlio di quindici anni. Izi, Rkomi, Ghali li sento spesso, mio malgrado. Ora si sta spostando sugli americani che, a prescindere dai testi volgari e violenti (giustamente anche, descrivono i tempi) sugli arrangiamenti sono più bravi. Gué si è modernizzato, lui è già vecchia generazione. Mio figlio suona la batteria e adora Stevie Wonder, quando suona ascolta più quel tipo di musica. Con gli amici è tutta trap. Credo sia giusto che esplori di tutto: avrà il suo periodo hard rock, prog. Avendo però un buon input, nel periodo dei venti e i trent’anni anni che come dicevi tu è quello che rimane, credo che tornerà più sulle “vecchie corde”: Genesis, Pink Floyd. Gli immortali.
Domandona: cos’è per te la musica?
Urca. Vado a braccio. La musica per me è la cosa più bella del mondo. L’unico linguaggio universale che accomuna tutti gli esseri umani. Esistono mille generi, lingue, sfaccettature. Si tratta di qualcosa di ancestrale e dalla musica tribale a quella sinfonica, c’è sempre qualcosa in comune. La musica è una forma di espressione che non ha bisogno di essere tradotta. Un ritmo tribale viene capito in Nigeria e in Norvegia. Non ammette filtri discriminatori. Personalmente mi ricordo di ascoltare musica da quando sono nato e da quando mi alzo a quando viaggio ascolto musica. Una volta portavo con me il sacchetto di cassette registrate ora guardo che ci sia la chiavetta con la musica che desidero per quel viaggio o momento. Miles Davis in Spagna ha fatto Flamenco Sketches. Il jazz si fonde con il ritmo sevillano e il flamenco, diventando un jazz che prima non esisteva. Oltre che universale, la musica ha infinite combinazioni.
Chiudiamo con l’ultimo concerto a cui sei stato, e il più bello della vita.
L’ultimo è quello di Bruno Mars. Il più bello è senza dubbio quello di Stevie Wonder al Forum, nel 2010. A quel concerto c’era un’atmosfera particolare. Aveva smesso di andare in tournée dopo la morte della madre. In una visione notturna fu proprio lei a dirgli “vai e suona” e così iniziò questo tour. Fu un capolavoro. Conosco il suo manager e ho prenotato venti biglietti prima ancora che esistessero. Gli ho detto: li voglio in terza fila. Ero a quattro metri da Dio.
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Ad oggi non si hanno notizie su un eventuale subentro nello spazio di via Pasinetti, che fino ad aprile continuerà ad ospitare la Salumeria.
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