Declino e rinascita del mito della malavita a Milano
Dalla musica alla letteratura, il mito romantico della vecchia mala milanese è in pieno revival da un po’ di anni, in un misto di campanilismo e nostalgia.
Dalla musica alla letteratura, il mito romantico della vecchia mala milanese è in pieno revival da un po’ di anni, in un misto di campanilismo e nostalgia. Ne parliamo stasera in Santeria Paladini 8.
Nel giugno del 2014, Renato Vallanzasca è in regime di semilibertà. Per la precisione, ha un permesso premio di tre giorni dal carcere di Bollate, l’ultimo di una lunga serie di penitenziari visitati dall’ex bandito, che si porta dietro una storia carceraria piuttosto travagliata, fatta di rivolte violente e rocambolesche evasioni (l’ultima, non riuscita, nel 1995). Condannato in tutto a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione per sei omicidi e svariate rapine, Vallanzasca già da qualche anno ha intrapreso percorsi riabilitativi al di fuori dal carcere: ha fatto il volontario per Don Mazzi, ha lavorato in una pelletteria, in una ricevitoria, in una ditta informatica di Nerviano. Ma il 14 giugno 2014 si fa beccare mentre ruba due paia di boxer, un paio di cesoie da giardinaggio e concime per piante all’Esselunga di viale Umbria: valore totale, 70 euro.
Nonostante una solida difesa incentrata sulla tesi del complotto (“Io indosso solo mutande di Versace,” dice in tribunale), Vallanzasca viene condannato ad altri dieci mesi per “rapina impropria,” e gli viene revocata la semilibertà.
Se dovessimo descrivere con una sola immagine il definitivo tramonto del mito romantico della malavita milanese, senza dubbio sarebbe questa.
Eppure, lo stesso Vallanzasca, per molti versi ancora prigioniero di questo mito, aveva già provato a liberarsene anni prima, stanco di vedersi cucita addosso un’immagine ormai lontana dal se stesso attuale, e dal mondo in cui si trovava a vivere. “Il Bel René… La banda della Comasina… Ma andassero un po’ tutti a cagare,” dice nel 2009 a Carlo Bonini, commentando la decadenza morale della criminalità di oggi. “La malavita non esiste più. Oggi esiste la mala-vita. Niente regole, niente onore, niente amicizia, niente rispetto. La violenza è dappertutto ed è insensata.”
Questa nostalgia per “i bei tempi andati” può suonare strana in bocca a un criminale incallito, capace anche di omicidi efferati, come quello del pentito Massimo Loi. Ma si tratta di una costante della criminalità meneghina, che di generazione in generazione si è sempre nutrita di un immaginario romanzesco e della mitizzazione del proprio passato. Un passato che comincia probabilmente con il nome di Ezio Barbieri, il “boss dell’Isola”, elegante come un gangster americano, con la sua Aprilia nera targata 777 e il sorriso spavaldo sui baffetti perfino al momento dell’arresto, avvenuto nel 1946.
Di Barbieri — che è ancora vivo e abita in provincia di Messina — si ricordano gesta leggendarie, come la “rapina con la donna nuda” (usata per distrarre i cassieri e gli avventori della banca) e lo straordinario favore di cui godeva da parte degli abitanti del quartiere, con cui condivideva sempre i proventi delle rapine. Per la propria severa etica da “criminale gentiluomo” si vantava di non aver mai commesso un solo omicidio.
L’immagine romantica dei primi banditi della ligera si deve senz’altro alla loro estrazione realmente popolare — e, in qualche caso, partigiana. In una Milano devastata dalla guerra, con gli apparati giudiziari e di polizia ancora controllati dal vecchio establishment fascista, e molte armi ancora in circolo, era facile che la rivalsa di classe passasse anche dalle rapine in banca e dalla vita fuorilegge. D’altronde, “banditi” era il nome con cui repubblichini e nazisti definivano i partigiani.
Ma questo banditismo popolare finisce molto presto, quando all’immaginario criminale del Robin Hood che aiuta i poveri e combatte il “padrone” si sovrappone quello del gangster amante della bella vita, delle belle donne e delle auto da corsa — a cui lo stesso Ezio Barbieri si conformava, e che poi sarà proprio di Vallanzasca e Turatello negli anni ’70.
Il salto di qualità della ligera milanese, con la rapina di via Osoppo nel 1958, apre la strada ai colpi più spettacolari e violenti del decennio successivo: la rapina di via Montenapoleone, orchestrata nel 1964 dal Clan dei Marsigliesi di Albert Bergamelli, “rovina la stagione” agli esponenti della vecchia mala, che addirittura collaborano con la polizia — la madama — per la cattura dei responsabili. La rapina di Largo Zandonai, messa in atto dalla Banda Cavallero, lascia sul terreno quattro morti e venti feriti, dopo un inseguimento durato più di mezz’ora per le strade della città.
Né i Marsigliesi né i membri della banda Cavallero (torinesi) appartenevano alla ligera, ma sparatorie e sequestri di persona (anche questi disdegnati dalla mala di un tempo) saranno la norma negli anni ‘70. Commentando l’uso delle armi da fuoco da parte di Cavallero e poi di Vallanzasca, Arnaldo Gesmundo — ex partigiano e “mente” della rapina di via Osoppo — ha dichiarato recentemente: “Ho sempre pensato che non fossero dei professionisti. La violenza è controproducente. Spesso agivano senza un programma ben congegnato. Bisogna sempre calcolare la via di fuga.”
Non erano sempre le banche, l’obiettivo: spesso si rapinavano gli uffici cassa delle fabbriche nel giorno di paga, trafugando gli stipendi di operai e impiegati. Ciononostante, ancora negli anni ‘60 la malavita conservava una certa impronta operaia, anche nell’estetica: in largo Zandonai, Cavallero e compagni indossavano tute blu da operai, proprio come la banda di via Osoppo. Di recente, Sante Notarnicola — che in carcere si sarebbe avvicinato alle Brigate Rosse — ha rivendicato la valenza politica del proprio passato: “Rapinavo le banche da politico, non per arricchirmi. Nacqui proletario, e da tale morirò.”
Ma qualcosa stava irrimediabilmente cambiando: dopo gli anni ‘60, la criminalità milanese somiglia sempre meno a una lotta proletaria, e si avvicina sempre di più ai modi delle organizzazioni mafiose del Sud Italia — con cui Francis Turatello, re delle bische clandestine e della prostituzione, aveva comprovati rapporti. Proprio le mafie del Sud chiuderanno definitivamente l’epoca della ligera e della malavita “autoctona,” sostituendola nel controllo dei mercati illegali in città.
Eppure, il mito romantico della vecchia Milano criminale oggi è più vivo che mai, e tende ad omogeneizzare un po’ tutto — la ligera, Scerbanenco, Vallanzasca, i film poliziotteschi degli anni ‘70 — in un’unica epopea malavitosa. È un revival che passa attraverso la toponomastica — lo Spazio Ligera, il Madama Hostel, le birre del Birrificio Lambrate — la musica — i Calibro 35, con la loro rivisitazione delle colonne sonore dei poliziotteschi, ma anche i Baustelle — e ovviamente la letteratura, da Pietro Colaprico a Paolo Roversi, che nel 2015 con il romanzo Solo il tempo di morire è arrivato tra i sei finalisti del premio Bancarella.
A Palazzo Morando è attualmente in corso una mostra, Milano e la mala, che racconta quarant’anni di storia criminale cittadina attraverso fotografie d’epoca, cimeli, articoli di giornale. La mostra sta riscuotendo un certo successo: è andato a visitarla anche Rossano Cochis, ex luogotenente di Vallanzasca, che si è commosso guardando le foto e ne ha approfittato per ricordare, anche lui, “l’etica” dei bei tempi passati — con una retorica che, al netto delle dovute differenze, non è diversa da quella dei vecchi “uomini d’onore” della mafia siciliana.
Ma a cosa si deve questo ritorno in auge del mito della Milano criminale? Da un lato sicuramente si tratta di un fascino antico mai tramontato (come dimostrano le vecchie leggende su Ezio Barbieri), che si innesta però su nuovi fenomeni di moda — come quello della “Milano sparita e da ricordare,” la nostalgia per il vecchio volto della città dopo due decenni di stravolgimenti urbanistici e sociali. E poi c’è il ruolo della stampa, che, con poche eccezioni, ha sempre fatto del proprio meglio per enfatizzare l’immagine dei banditi “belli e maledetti” — e lo fa tuttora, continuando a soprannominare Vallanzasca “il Bel René” o descrivendo Ezio Barbieri come “il criminale più creativo e bohémienne di tutti i tempi, il Dillinger italiano.” Così, si nota quasi un certo orgoglio campanilistico di Milano nei confronti della propria malavita storica, nell’epoca del successo pop di altre forme di crimine più o meno organizzato in altre città d’Italia — manca soltanto una serie tv.
Parleremo di questo, e di molto altro, stasera alle 20.00 in Santeria Paladini, in via Ettore Paladini 8, durante A Milano fa buio presto – Mezzo secolo di narrazione criminale tra Lambrate e Città Studi. Avremo ospiti Paolo Roversi e Tommaso Bertelli e Matteo Liuzzi di Radiografia Nera, un programma in onda su Radio Popolare dedicato ai casi di cronaca nera milanesi precedenti il 1976.
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