Da oggi potremo finalmente andare al cinema a vedere It, remake cinematografico tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Per gli appassionati di cinema, gli appassionati di horror e gli appassionati di King si tratta certamente di un evento.
Dopo l’uscita del libro nel 1986 e, soprattutto, dopo il primo adattamento nel 1990, il pagliaccio Pennywise è entrato nell’immaginario demoniaco contemporaneo al pari di Alien e l’esorcista. Ora, 27 anni dopo, It riappare sul grande schermo — 27 anni come l’intervallo di tempo con cui era solito scatenarsi il terrore e tornare a manifestarsi il clown nella cittadina inventata di Derry.
Anche chi non ha letto il libro, o non ha visto il primo It, è in qualche modo sommerso dalla potenza simbolica scatenata dal romanzo di King, quanto meno dalla descrizione della scena più famosa del libro, la scena di una barchetta di carta che, da un canale di scolo, cade all’interno di un tombino. Per creare un gelido brivido lungo la schiena, e un intero universo di terrore, a King basta l’incipit.
Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse anche di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
Ovviamente il libro è e racconta tanto altro, ma quest’immagine, seguita dall’entrata in scena del pagliaccio dalla fessura della fogna, è una tra le più iconiche di King.
Il mio rapporto con quest’autore è stato simile a quello di molti altri, immagino: “è troppo pop, troppo banale e troppo inflazionato per poter trovare il tempo di leggerlo, troppo superficiale per anteporlo a una mole di letture saggistiche, classiche e contemporanee sempre più alta sul comodino.”
Ho sempre visto King per come appare: un autore horror appartenente alla letteratura commerciale americana, quella dei best seller, capace di creare incessantemente personaggi e trame adatte alla produzione di grandi film. Da Shining a Le ali della libertà, da Il miglio verde a Carrie, ci sono più di cinquanta film tratti dalle storie che una mente come la sua ha saputo partorire. Oltre alla quantità di libri e racconti pubblicati – più di uno all’anno dal 1974 ad oggi – King ha saputo concepire le basi e creare alcune costanti presenti in moltissimi di quelli che sarebbero stati poi tutti i racconti e i film horror da lì in avanti. Dal 1974 in poi negli incubi delle persone sono comparsi personaggi al fianco di mostri sacri (perdonate il gioco di parole) come Frankenstein e Dracula.
Ci sono così tante storie partorite da Stephen King che tutte le generazioni nate dagli anni Settanta in poi vivono in un mondo in cui è presente l’universo King, dove per universo intendo la dimensione spazio-temporale immaginaria dove tutte queste storie avvengono — un universo simile a quello Marvel, o quello di Harry Potter. Un universo che, per la maggior parte, si riversa in cittadine medie del Midwest statunitense nella seconda metà del Novecento. A Castle Rock per esempio, cittadina del Maine dove sono ambientati ben nove romanzi, e che darà il nome alla prossima serie tv di Hulu (gente che non scherza, hanno prodotto The Handmaid’s Tale) e ideata da Stephen King stesso assieme a J.J.Abrams.
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Insomma, è appena uscito It, a breve uscirà Castle Rock, e Netflix ha reso disponibile da qualche settimana Gerald’s Game, un altro film tratto da un suo romanzo. Nei prossimi tempi quindi sentirete ancora parlare di Stephen King da tutte le parti.
Cos’altro deve fare Stephen King per essere considerato un grande autore?
Si tratta di un autore capace di scrivere un romanzo di culto all’anno, è solo quantità-capace di-bucare-lo-schermo ma, in fondo, di bassa qualità letteraria? Ancora molti critici, molti giornalisti e gran parte dei comuni lettori si stanno chiedendo se King debba essere considerato alta letteratura e quale sia il suo valore.
Io, dopo qualche romanzo letto, un’idea me la sono fatta. Cosa può darci leggere i libri di King, al di là di tutti i meriti che ho appena elencato?
Stephen King non è un autore horror, o meglio, è molto di più: è un attento e profondissimo osservatore della classe piccolo-borghese americana, grande descrittore, sotto forma di metafore e mostri, dei movimenti che il subconscio umano continua a produrre dall’età infantile a quella adulta.
Parlando di subconscio vi verrà in mente Edgar Allan Poe, inventore del terrore letterario legati agli strati meno accesi della coscienza umana. Ma se Poe è un artista di quei territori dell’anima, King ne è l’artigiano dalle mani sporche, la birra da due soldi e i mutui sulle spalle del cittadino medio. Poe è il narratore dei brandelli dell’età romantica; King invece non utilizza la profondità concettuale dei grandi autori del passato, ma concentra il suo potere in una quantità immensa di metafore sparpagliate, multidirezionali e frammentate, esattamente come le vite di cui narra.
Lo scrittore ci parla prepotentemente delle nostre vite: vite senza alcun fine teleologica se non il raggiungimento della pensione, vite fatte di mutui, di auto nuove, di fast-food, di serate sul divano davanti alla televisione, di sport da guardare e bei voti da prendere, di convenzioni e religione di facciata, di istituzioni come il matrimonio, la famiglia e la morale. Ci sembrano vite protette, vite dove ogni cosa è razionalmente al suo posto, senza eccessi se non quelli prestabiliti dai confini della ragione.
King ci vuole spiegare che queste vite consumate all’interno del razionale e del sensato – bordo tracciato perché potessimo produrre e consumare, sostanzialmente – sono in realtà attraversate da potenze oscure, irrazionali e spaventose. Le potenze di tutto quel sovrappiù d’umano che la società occidentale ha dovuto raschiare via dall’esistenza per permetterci di sopravvivere.
Tutti noi sentiamo che c’è qualcosa che non quadra al mondo, avvertiamo più o meno intensamente un certo tipo di disagio che in tutt’altra epoca e con tutt’altra epica Herman Melville ha incarnato nella figura di Moby Dick:
“Quell’intangibile malvagità che è stata al principio delle cose; al cui impero persino i moderni cristiani ascrivono metà dei mondo; […] Tutto ciò che sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male, per l’insensato Achab era visibilmente pianificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick.”
Ed ecco di nuovo Melville, che condensa in una sola frase ciò che King sta esplorando in cinquant’anni di romanzi da centinaia di pagine:
“Quel minatore sotterraneo che lavora in tutti noi, come si può mai dire dove volga il suo pozzo, al rumore sempre cangiante e soffocato che fa il suo piccone? Chi non sente il braccio irresistibile trascinarlo?”
Il braccio irresistibile trascinarlo, è così che muore il bambino che rincorreva la barchetta di carta all’inizio di It. E oltre a strabiliarmi, questa cosa ci riporta a un passaggio ancora più profondo di King: l’attenzione per i bambini e l’infanzia.
I bambini fanno paura o ribrezzo a molti, hanno comportamenti irrazionali e spesso controproducenti: piangono, cagano, urlano e saltano quando non dovrebbero, molto spesso quando la situazione non lo consente. Quella del bambino è una vita ai margini della società adulta e razionale, per questo vanno educati. Ecco, King ci dice che è proprio dai bambini che può passare la salvezza della nostra vita, perché sono loro che hanno una mente ancora capace di contenere in sé l’irrazionale, l’oscurità che la nostra mente adulta ha bisogno di escludere.
Un bambino affronta un fantasma ricoperto di sangue come un elemento del suo mondo, un elemento ostile da combattere. Per un uomo non solo non sarebbe una visione inconcepibile, ma perfino motivo di crollo psichico e di sovvertimento totale del mondo conosciuto, uno spezzarsi della ragione. Così King descrive la conseguenza del manifestarsi del terrore di It ad un adulto:
“Profanato, già. Era l’unica parola che gli sembrava adeguata. Erano accadute cose non ammissibili. Profanavano il senso dell’ordine di qualsiasi persona sana di mente. Profanavano l’idea che Dio avesse dato alla Terra un’inclinazione sull’asse…”
I bambini sono protagonisti di molti romanzi di King, e anche in It la salvezza passa attraverso di loro. Perché i bambini sono ancora una fessura aperta, che si sta lentamente chiudendo, verso la comprensione dell’immenso mondo sotterraneo che scorre potente al di sotto della nostra quotidianità, ed è capace di distruggerla in qualsiasi momento.
Andate a vedere It e poi, incuranti del peso fisico dei libri e tutta la polvere di una conoscenza superficiale che anni di best-seller vi hanno gettato addosso, provate a riprendere in mano un libro di Stephen King e affrontarlo — ne sarà valsa la pena.