Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana Karim El Maktafi ci racconta del suo progetto Hayati, un racconto intimo della sua vita da emigrato di seconda generazione.
Ciao Karim, vorrei partire dalla traduzione del titolo del progetto: in italiano si perde qualcosa o la traduzione di Hayati dal marocchino è letterale?
Hayati significa la mia vita ed è una parola che spesso viene usata anche verso le persone a cui si vuole particolarmente bene (“sei la mia vita”). Ho voluto in qualche modo dedicare questo lavoro alla mia famiglia e alle persone che mi circondano.
Il tuo progetto racconta la compresenza di due culture nella tua vita: hai deciso di raccontarlo perchè un aspetto importante del tuo quotidiano?
Ho deciso di iniziare questo lavoro dopo un consiglio datomi quando ero in residenza a Fabrica: “perché non provi a raccontare qualcosa che gli altri non possono raccontare?” Ho provato quindi a raccontare dall’interno queste due culture che mi appartengono e con cui mi scontro quotidianamente.
Come si è sviluppato dunque il progetto? Le fotografie che creano il corpo del lavoro sono incontri casuali?
Il progetto rappresenta un capitolo, un anno della mia vita, dove ho cercato di vivere le mie giornate senza stravolgere il corso degli avvenimenti. Ho provato a soffermarmi su alcuni aspetti importanti della famiglia e della vita quotidiana con le persone con cui sono cresciuto.
Sul tuo sito, il progetto viene accompagnato da alcune illustrazioni: una è una mappa e rappresenta la tua città natale, ci sono poi illustrazioni con scritte in arabo, ce le puoi raccontare?
La mappa che compare sul mio sito è una riproduzione della prima cartolina che mio padre inviò a mio nonno una volta arrivato in Italia. Le Illustrazioni invece sono tratte da un libro di arabo per bambini che i miei genitori mi diedero da piccolo per imparare la lingua. Sulle illustrazioni ci sono scritte filastrocche e preghiere, parole per trasmettere la cultura d’origine.
Come mai hai optato per l’utilizzo del cellulare per questo progetto?
Ho deciso di usarlo per due motivi: da una parte perchè è stato il primo mezzo con cui ho iniziato a fotografare a 16 anni, quindi ho provato ad usarlo con un occhio più maturo. Dall’altra perchè avevo bisogno di un mezzo comodo, che avevo sempre con me in tasca, che non fosse invadente e che non desse fastidio ai soggetti fotografati.
Questo weekend inaugura il Festival della Fotografia Etica di Lodi, dove hai ricevuto una menzione d’onore, e quest’anno lo porterai in mostra insieme agli altri vincitori. In un anno cosa è cambiato nelle tue ricerche, se è cambiato?
Ogni anno che passa comporta anche una continua crescita dal punto di vista fotografico, quest’anno ho capito su cosa voglio concentrarmi, quali tematiche affrontare e quali storie portare avanti. Oltre al Festival di Lodi, questo progetto ne ha ricevuti anche altri, ci tengo a ricordare.
Un autore di riferimento che ti ha ispirato particolarmente?
Un autore che mi ha ispirato particolarmente è Davide Monteleone ma ce ne sono parecchi come Myriam Meloni, Arnau Bach, Alvaro Deprit, Yan Gross, Sarker Protick, Katrin Koenning e Drew Nikonowicz.
Una ispirazione che viene invece da altre forme d’arte?
Mi piace trarre ispirazione dalla musica, soprattutto quella strumentale.
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