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Abbarbicati sulle pendici del Monte Athos e circondati da una natura pressoché incontaminata, i venti monasteri dell’“Agion Oros” (la Sacra Montagna, come è conosciuta nel mondo ortodosso), sono da secoli il cuore pulsante del monachesimo orientale e i guardiani dell’ortodossia cristiana.
Dato il suo isolamento, la repubblica monastica, situata all’interno della penisola calcidica, nel cuore della Grecia settentrionale, è uno di quei luoghi inevitabilmente avvolti da un’aura di mistero, non del tutto dissipata nemmeno dalla maggiore facilità con cui anche un semplice turista occidentale può oggi ottenere un permesso di ingresso.
Il Monte, abitato da circa duemila monaci provenienti da tutto il mondo ortodosso, e ancora oggi inaccessibile alle donne (così da onorare la presunta volontà della Vergine, Signora dell’Athos, e al fine di preservare la quiete monastica), è meta imprescindibile per tutti quegli uomini ortodossi che intendono riconnettersi con le radici più profonde della loro fede e attingere ad una fonte viva di orgoglio panortodosso. Data questa loro duplice natura di ispiratori di spiritualità e di creatori di identità, i monasteri dell’Athos vivono costantemente al confine tra misticismo ascetico e impegno politico più o meno esplicito. Tale tensione risulta oggi ben visibile agli occhi del visitatore attento che, andando oltre l’apparenza di totale distacco dalle cose di questo mondo che l’Athos aspira ad emanare, riesce a percepire il ruolo decisamente poco contemplativo dei monaci athoniti nel plasmare una nuova identità per l’Europa orientale, perennemente incastrata tra un Occidente, attraente quanto inaffidabile, e la stabilità autocratica dell’”orso russo”.
Sopravvissute agli attacchi di crociati latini e mercenari ottomani, al tentato saccheggio da parte delle milizie del Terzo Reich e alle vicissitudini della moderna repubblica ellenica, le comunità monastiche dell’Athos rappresentano una continuazione ideale e reale dei fasti di Bisanzio. L’aquila imperiale, che campeggia rampante ad ogni angolo, è infatti il simbolo per eccellenza del Monte. Inoltre, i monaci sono strenui difensori della superiorità del calendario giuliano su quello gregoriano per scandire la ciclicità del loro anno liturgico.
Nati su iniziativa di Sant’Atanasio l’Athonita (che fondò il primo cenobio, la Grande Lavra, nel 963 d.C.), i monasteri attrassero per secoli aspiranti asceti di tutta Europa, dall’Oriente come dall’Occidente; degna di nota è la presenza, sul Monte, di una comunità di benedettini amalfitani che l’abitò ininterrottamente tra l’XI e il XIV secolo, segno inequivocabile dello spirito proto- ecumenico e multiculturale che permeava l’Athos nei suoi primi secoli di attività.
Con lo scisma d’Oriente, il Monte cadde inevitabilmente sotto la giurisdizione del patriarcato greco ortodosso di Costantinopoli e si ruppero, così, i legami con le chiese latine. Progressivamente la sua sfera di influenza iniziò ad espandersi ben al di là di questioni puramente monastiche, così che l’Athos assunse presto uno status di baluardo dell’Ortodossia, in scontro aperto con le distorsioni dottrinali e le “sciatterie” liturgiche provenienti dall’eretico Occidente cattolico. Ma è a cavallo tra il XIX e il XX secolo che l’influenza del Monte raggiunse il suo picco massimo. Durante gli anni travagliati dello smantellamento degli imperi e della creazione degli stati nazionali in Grecia, Romania, Bulgaria, Serbia e Albania, le varie comunità monastiche athonite (ciascuna legata ad una particolare chiesa ortodossa nazionale da secoli di donazioni e scambi reciproci) offrirono la loro benedizione spirituale ai neonati movimenti patriottici e un importante contributo nel forgiare le nascenti identità nazionali. Questo atteggiamento non fece che incrementare i flussi di denaro e di novizi verso l’Athos, dove proprio in quel periodo la nazionalizzazione dei vari monasteri prendeva forma definitiva.
Similmente, dopo il crollo dell’URSS, gli athoniti furono essenziali nel fornire nuovo vigore alla ricostruzione delle varie chiese nazionali fino ad allora soppresse o ridotte al silenzio dai vari regimi comunisti. Tali sforzi hanno prodotto risultati particolarmente significativi in Russia, in quanto si sono uniti alle politiche espressamente volte a ricristianizzare il Paese introdotte di Putin.
Nell’avvicinarsi al monastero russo di Panteleimonos mediante il traghetto—tuttora l’unico mezzo per raggiungere il Monte— il visitatore rimane colpito dalle cupole dorate delle innumerevoli cappelle inframezzate dalle gru sempre in attività, che danno un’impressione di continua espansione e ristrutturazione. Se tanti sono i benefattori del Monte, sono proprio i russi che detengono il primato per la dovizia delle elargizioni. Putin stesso è un assiduo ospite dei monaci russi e la sua generosità verso di loro è argomento di frequenti conversazioni e motivo di incessante lode sull’Athos. Le donazioni si accompagnano ad un progressivo aumento della presenza russa sul Monte, di cui la ormai onnipresente segnaletica in cirillico è solo il segno più visibile. I novizi di Panteleimonos—capelli raccolti in un codino e modi aggraziati—accolgono i visitatori con abbondante loukoumi ricoperto di zucchero a velo (la gelatina speziata tipica di molti Paesi mediorientali), raki artigianale e denso caffè greco.
Nella foresteria del monastero, ospitata in un edificio recente ma in stile zarista, troneggiano foto del presidente e del patriarca di Mosca Kirill vicino a icone della Vergine dell’Athos e di San Demetrio.
Ma sono i pellegrini russi che attirano in modo particolare l’attenzione: ancor più dei loro corrispettivi greci o romeni, i russi dell’Athos si portano addosso una perenne aria di contrizione ed espiazione. Avviluppati nelle loro giacchette a vento e sfoggiando improbabili outfit sportivi comprati per l’occasione, girano con un fare che è un misto di pia compunzione e di orgoglio per l’impresa compiuta. Muniti di rosari e di santini, si aggirano facendosi il segno della croce a più non posso. Durante le interminabili liturgie, le loro calze bianche che spuntano dai sandali fanno da contrasto alla magnificenza delle volte affrescate e allo sfavillio dorato dei paramenti sacri. Mentre per i greci la visita al Monte è spesso a metà tra pellegrinaggio e gita fuori porta, i russi, presi dalla sindrome del neofita, vivono il viaggio come testimonianza suprema della fede ritrovata e così valorizzata nella Russia putiniana.
Il progressivo inglobamento dell’Athos nella sfera di influenza russa allontana di conseguenza la Montagna dall’orbita europea, a cui naturalmente apparterrebbe. È emblematico che l’avvicinamento tra il Monte e la Russia stia avvenendo in un momento di frizione tra la Grecia e l’Europa su una soluzione al crescente debito ellenico. Sentendosi traditi e abbandonati dall’Unione Europea, i greci guardano ad oriente per nuove possibilità e con nuove speranze. E trovano la mano tesa della Russia, che intravede in Grecia quell’opportunità di uno sbocco sul Mediterraneo da sempre ambita. L’esponenziale aumento degli investimenti russi, non solo sul Monte ma in tutta la regione di Salonicco, rientra infatti nella strategia di espansione verso ovest che il Paese degli Urali sta, più o meno esplicitamente, operando.
Colpita ancor più duramente di Atene dal recente tracollo finanziario greco e piagata dalla disoccupazione, Salonicco si presenta trascurata e avvilita. Molte saracinesche rimangono abbassate, i gloriosi resti bizantini si intravedono a fatica sotto una coltre di graffiti e di cartacce, e gli straordinari musei della città, aperti nei primi anni Duemila, sono oggi semideserti. In questo scenario apocalittico, solo gli investimenti russi stanno portando una boccata di ossigeno: numerosi voli charter da tutta la Russia atterrano quotidianamente all’Aeroporto della Macedonia, con a bordo facoltosi avventori che soggiornano nei boutique hotel affacciati sul Mediterraneo. Sono questi che, lasciate le mogli nei lussuosi resort della Calcide, si recano poi in pellegrinaggio sull’Athos. Ma i russi non sono solo sinonimo di turismo: alla vigilia della sua visita in Grecia nel 2016, Putin lodò i progetti di cooperazione energetica con il governo ellenico che passavano proprio dal porto di Salonicco. Il presidente si spostò poi sul Monte per ottenere la benedizione monastica. Le celebrazioni furono accompagnate dal vino Kormilitsa dei monaci russi, che il presidente ha nominato fornitori ufficiali del Cremlino.
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L’Athos gioca dunque un ruolo fondamentale nella “crociata balcanica” di Putin, offrendo quel collante spirituale tra i popoli dell’Est europeo che serve perfettamente la retorica panortodossa di Putin. L’aumento della presenza russa sul Monte non ha infatti soltanto ricadute economiche: dal punto di vista teologico, l’avvicinamento dell’Athos a Mosca significa la predominanza di posizioni più reazionarie, in aperto scontro con l’ecumenismo pro-bergogliano del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Il papa di Roma e l’Unione Europea, confluiti in un’improbabile unica entità, costituiscono infatti, nell’immaginario di un monaco estremista (e poco istruito), l’incarnazione per eccellenza dell’anticristo. E questo nonostante i recenti investimenti dell’Unione nell’ammodernamento delle poche strade dissestate del Monte, che sono spesso percepiti come un tentativo di ingerenza volta a violare l’isolamento dell’Athos.
A contrastare il totale assorbimento della Sacra Montagna nell’universo russo (e la conseguente chiusura ad un’Occidente percepito come eretico) è il lavoro—indispensabile quanto poco clamoroso—dei monasteri di Simonopetra e, in misura minore, di Vatopedi, da anni interlocutori della nostrana Comunità monastica di Bose, e sostenitori dell’opera ecumenica di Bartolomeo. Attraverso i loro scritti e in ottemperanza all’antica virtù monacale dell’ospitalità, i membri di queste comunità promuovono una visione meno antagonista del ruolo dell’Athos in Europa e nel mondo.
Sebbene un’interpretazione ultra-conservatrice dell’ortodossia sia quella prevalente sul Monte, è impossibile non notare come la tanto ostentata modernità abbia già reso visibile i suoi effetti anche sull’Athos, in questo caso tramite una delle sue creature più potenti, il viaggio ai tempi del low cost. Il divieto d’accesso alle donne, unito alla maggiore accessibilità al Monte dai quattro angoli d’Europa, ha infatti attratto un tipo di turisti che né Putin né i monaci più radicali si potevano aspettare: coppie omossessuali che, discretamente ma non troppo, passeggiano su e giù per la penisola alla ricerca di un’ineguagliabile esperienza mistica. E così, tra manie di grandezza russe e turismo occidentale, i monaci greci stanno a guardare: metafora, questa, del destino di una intera regione, la cui identità è ancora in via di definizione.