L’Inganno di Sofia Coppola, una distorsione emozionale al tempo della Guerra civile americana

La regista Sofia Coppola torna a guardare il mondo attraverso la vita di donne alle prese con l’incarnazione del mistero.

L’Inganno di Sofia Coppola, una distorsione emozionale al tempo della Guerra civile americana

La cosa interessante, tra le tante, è il tempo. La pellicola è il concentrato emozionale di una vita ridotta a 91 minuti: è la danza di un verme schifoso, viscido e bastardo che si insinua sotto pelle.

L’inganno – il nuovo lavoro di Sofia Coppola – è una rivisitazione del film La notte brava del soldato Jonathan (1971), diretto da Don Siegel, entrambi fanno fede al soggetto dello scrittore Thomas Cullinan The Beguiled. Alle spalle il premio per la regia al Festival di Cannes, un Colin Farrell redento dalla seconda stagione di True Detective, la magnifica fotografia di Philippe Le Sourd (The Grandmaster) e una ciurma di attrici che, in ultima analisi, non sono solo il cono d’ombra attraverso cui la Coppola guarda il mondo, ma il vero perno psicologico della narrazione.

Lo straniero

È il 1864, ci troviamo a tre anni dallo scoppio della Guerra Civile americana, i cannoni rumoreggiano oltre la macchina da presa, al di là degli sconfinati prati della Virginia. Soldati in giubbe rosse infestano il bosco. Uno yankee smarrito attende ai piedi di un albero. In lontananza, invece, all’interno del collegio femminile di Martha Farnsworth, l’accadere del mondo è indifferente. Una ragazza passeggia nel bosco canticchiando. Inizia L’inganno.

L’inganno

Il collegio di Martha Farnsworth (Nicole Kidman) è situato in un ordine ontologico nettamente separato dal nostro. La guerra è sfondo, un suono ovattato in lontananza. L’istituto – che è più simile a una villa – è cadenzato e ordinato tanto quanto la routine monacale. C’è del sacro nell’ordine programmatico delle loro attività di cucito. Questa dimensione caratterizzata dall’assenza di contraddizioni, di discrepanze nell’ordine del tempo, viene selvaggiamente interrotta quando Amy, una delle più giovani tra le ragazze, intenta a raccogliere funghi nel bosco, incontra John McBurney: un soldato nordista ferito.

L’uomo viene accolto con sospetto. C’è lo scherzo, il dilemma (tutto sovrinteso dalla “carità cristiana”). Sarebbe lecito portare in casa l’uomo, il caos nel loro mondo? In breve tempo, attraverso veloci e penetranti cambi nel montaggio, siamo nella stanza dove John dorme. L’uomo ha bisogno di cure e di essere pulito: Martha Farnsworth lo lava con cura, lentamente, poi con maggiore tensione e insistenza. Il bagno all’uomo, un’antica prassi che qui si ribalta in coito solipsistico, in pura tensione sessuale, mentre le altre donne si dedicano al cucito nell’altra stanza. È un orgasmo unilaterale, una masturbazione mascherata e inedita allo stesso tempo.

Passano i sudisti, bisogna dir loro chi si trova in casa. No, vince la pulsione erotica, un sentimento di paura e attrazione che nascostamente attraversa mente e corpi. Si insinua il terrore, si instaura il primo barlume del rapporto uomo/donna. Dopo cena le preghiere che sembrano canti funebri.

Lui “adora le cose selvagge, le cose selvagge e libere.” Non si può entrare nella stanza, in quel luogo vi è un mistero. La proibizione procura desiderio, passionalità e irrazionalità. Sesso. Le donne iniziano ad “agghindarsi.”

A cena il trending topic è, ovviamente, il corpo e il destino del povero soldato ferito. Si raccontano storie, veloci, enormi, grottesche chiacchiere da salotto: la mitopoiesi. Poi la bestia si risveglia e qui mi devo fermare. Mi devo fermare perché ciò che accade dopo è l’emozione che fa breccia in animi che, prima di allora, avevano vissuto solo nella forma, quella che Bauman chiamava “vita liquida”, la nostra vita. Una vita fatta di esercizi carrieristici, di nozionismo, di cinismo e di bassura identitaria.

La nausea

La cosa interessante, tra le tante, è il tempo. La pellicola è il concentrato emozionale di una vita ridotta a 91 minuti: è la danza di un verme schifoso, viscido e bastardo che si insinua sotto pelle. E nonostante nel finale si raggiungano dimensioni e dialoghi degni di Alfred Jarry (l’inventore della patafisica) – con tanto di tartaruga lanciata a terra – la tensione è al limite dal primo all’ultimo secondo. Anche nella luce, nelle ombre, negli sguardi siamo nella mente sballata di quelle donne. Alla fine si torna alla normalità, lo straniero se ne va. Si ritorna all’ordine tanto odiato, all’assenza di sentimenti e al cinismo.

Beh, che ci vivano loro, magari viveteci voi in questo “oggi,” in questa “vita liquida” – prendendo ancora in prestito un concetto caro a Bauman – io no, non voglio le psicosi refrattarie e le isterie deflagranti di chi non sa cosa sia l’amore o non sappia accogliere in sé le emozioni più sincere. Voglio lo straniero. È un po’ il paradosso della storia del cristianesimo: questo Gesù che porta la parola di Dio tra gli uomini, insinua in loro il dubbio, c’è il clamore, la gioia, il delirio più tracotante. Le ragazze di Martha Farnsworth sono buone cristiane, per dare l’addio al proprio leader e profeta ci vuole un’apposita e ultima cena (non mi è consentito dire di più).

Non resta che brindare, allora, a ciò che ci resta dopo la burrasca emozionale, dopo l’amore, la carne e la perversione – che è così umana da sembrare aliena – non ci resta che brindare alla nostra bieca vuotezza spirituale e, ovviamente, a questa bella vita.