La vita, le menzogne e i crimini di Roger Stone, l’uomo dietro Donald Trump
“Gioisco del vostro odio. Se non fossi stato efficace non mi odiereste.”
Dobbiamo liberarci della politica lagnosa del passato. L’America è una nazione di credenti che è guidata da un gruppo di censori, critici e cinici. Tutte le persone che vi dicono, “Non si può ascoltare la pancia del paese” sono le stesse che dicevano, “Trump non ha possibilità di arrivare fin qui.” Oh, quanto ci piace sconfiggere quelle persone, vero? A tutti gli Americani qui stasera, ve lo prometto: renderemo di nuovo l’America un posto sicuro. Torneremo forti, torneremo grandi! Dio vi benedica, buona notte!
—Discorso tenuto da Trump a Cleveland in occasione della nomina a candidato ufficiale del Partito Repubblicano
A poco più di un anno di distanza da questo discorso Trump è presidente degli Stati Uniti. È scoppiato il Russiagate, si parla di impeachment, l’FBI indaga su chiunque fosse al corrente, o abbia avuto a che fare con la storia degli hacker, con la faccenda delle mail segrete della Clinton e con il Cremlino.
Carter Page, Jeff Sessions, Paul Manafort, Micheal Flynn, Jared Kushner, Erik Prince, Mike Pence, Donald McGahn, H.R. McMaster e Roger Stone sono gli uomini del Presidente coinvolti nel cosiddetto Russiagate. L’FBI ha tutti i bersagli nel mirino, tutti tranne uno: l’idiosincratico ed egoriferito consigliere di Trump: Roger Stone. Uomo dal registro morale piuttosto infimo che si è ritrovato a innescare — per sua volontà, follia e dadaismo — lo scandalo che ora rischia di terremotare la Casa Bianca.
Stone’s rule: “Meglio essere famigerati che non essere famosi affatto”
Roger Stone è un “agent provocateur.” In una recente intervista — ne rilascia parecchie —, in riferimento al suo ruolo circa l’affair Russia, dice: “Tutto ciò che ho fatto è legale.” Agli occhi della legge, fino ad oggi, sembra di si; eppure il suo nome salta fuori ovunque, in ogni file case, in ogni articolo sull’argomento. È ovunque e da nessuna parte, tanto colpevole moralmente, quanto innocente legalmente. Lo stesso Trump dice che “Roger ha una brutta reputazione,” “ma lo conosco da tanto ed è un tipo a posto”. Mentre altri, invece, lo definiscono “un uomo spregevole”, “infame”, “un attore consumato”. Penso che la verità stia nel mezzo: tra il genio e la catatonica deficienza. Trump è un prodotto di Roger Stone: l’idea di Stone, all’alba delle presidenziali scorse, è stata una cosa tipo: The Apprentice è un successo, in quel contesto Trump “sembrava già Presidente.” Ma questa è solo la fine di una storia strampalata.
Stone’s rule: “Il passato è un fottuto prologo”
27 agosto del 1952, a Norwalk, Connecticut, Roger Stone irrompe nel reale (in pratica nasce). Cresce a Lewisboro, New York, da una famiglia di origini ungheresi e italiane. Stone definirà più volte la sua come una famiglia della middle-class e dei blue-collar Catholics. Alle elementari partecipa alle prime elezioni (in classe, tipo simulazione). Decide di appoggiare Kennedy perché i suoi erano cattolici e, anche se repubblicani, pensava simpatizzassero per lui. Ma anche perché “i suoi capelli (quelli di Kennedy nda) erano più belli di quelli di Nixon.” Per vincere, un giorno, quando era in mensa, mise in giro una voce secondo cui Nixon voleva far andare i ragazzi a scuola anche il sabato. La rivolta. In quel momento capì il potere della disinformazione.
1964: Stone ha 12 anni, partecipa alla sua prima Convention del Partito Repubblicano. La sua vicina di casa gli regala una copia di the Conscience of a conservative di Barry Goldwater. Capisce che quella è la sua strada, la politica. Inizia il volantinaggio, iniziano le spille e gli adesivi di Goldwater.
Il suo Dio diventa Richard Nixon e la sua religione il partito. Lo scheduling director di Nixon, Herbert “Bart” Porter, offre a Stone la possibilità di lavorare alla campagna del suo nuovo Dio. Andata, interrompe gli studi e si unisce al carro dei vincitori. Non si lavorava alla Casa Bianca, troppi sguardi, ma in Pennsylvania Ave: piccolo ufficio, poca gente. Roba mai vista per Stone.
Stiamo facendo una campagna di crowdfunding per riuscire a tenere a galla the Submarine anche l’anno prossimo: se ti piace il nostro lavoro, prendi in considerazione l’idea di donarci 5 € su Produzioni dal basso. Grazie mille.
Lo mandano subito nel new Hampshire, da Pete McCloskey, — avversario repubblicano di Nixon — per conto dei Giovani Socialisti. Un barattolo di penny e due stronzate: “sono dei Giovani Socialisti e vorrei donare questi soldi ma vorrei una ricevuta.” Gliela diedero e lui la spedì al Manchester Union Leader, giornale del new Hampshire. Screditò McCloskey con uno scontrino. Il trucco piacque. Gli amici di Nixon seppero ricompensarlo, qualche spicciolo. Poi il Watergate.
Si vanta di essere stato tra i più giovani davanti al gran giurì del Watergate. Un grafico mostrava i nomi della gente che aveva ricevuto soldi dal fondo segreto: lui era fra questi. Era al settimo cielo.
Aveva 19 anni. Aveva anche una fifa pazzesca. Era terrorizzato.
Divenne in breve tempo il punto di contatto tra Nixon e Reagan. Il capitolo seguente è facilmente immaginabile. Passava appunti, organizzava eventi. Lui e Nixon divennero amici. Si è fatto tatuare la sua faccia sulla schiena. Gli ricorda che quando “finisci a terra devi rialzarti e continuare a lottare.” Riflette l’approccio di Nixon alla politica, la mentalità capitalistica, il vincere a tutti i costi.
Stone viene eletto rappresentante dei Giovani Repubblicani. I tempi di Eisenhower come simbolo del partito sono andati: la posta in gioco era vincere, a tutti i costi.
Stone’s rule: “Attacca, attacca, attacca. Mai in difesa”
In seguito al Watergate vengono emanate leggi anticorruzione molto più ferree. Nasce allora il NCPAC (National Conservative Political Action Committee) in Virginia. Era un fondo, in pratica. Terry Doll era il direttore, Stone lo conobbe tempo prima, quando erano giovani, in Connecticut. Furono i primi ad usare la pubblicità negativa a scopo elettorale. Nel 1983 Stone era una sorta di rockstar, tipo Nietzsche per la filosofia. La mossa era stata trasformare il “democratico reaganiano” in un “sinistrorso repubblicano”: siamo nel 1980, Reagan vince le elezioni.
Stone ama sapere di essere un imbroglione, ricerca costantemente l’eccesso. Un passo indietro.
Siamo nel ’79, Stone va da Roy Cohn, vuole lavorare per Reagan: persona spregevole? No, mentore perfetto. Stone inizia a stringere amicizie a destra e a manca, conosce Donald Trump. Da quel momento Trump inizierà a gettare soldi nella macchina politica, della serie: non si sa mai.
Stone’s rule: “Gli affari sono affari”
Iniziano gli anni ’80. Roger Stone, Charles Black e Paul Manafort (tenete a mente questo nome) fondano la Black, Manafort, una lobby per finanziare il partito e Reagan; così da far girare soldi, contatti ma, soprattutto, potere. Stone ai tempi: “trarrò un sacco di soldi da tutto questo e non intendo scusarmene.” Figuriamoci. Era la lobby più potente di Washington. Stone era uno in ogni stanza del grande palazzo, indossava abiti da dandy anni ’50 e scarpe lucide; lui e il suo circo dicevano che cosa fare alla Casa Bianca.
Hanno creato il lobbismo che conosciamo oggi, non se ne pentono, hanno ucciso e, per loro, va bene così.
Poi arriviamo a Bush. Intanto, però, nel 1985, Stone e soci avevano ricevuto 3,4 milioni di dollari in finanziamenti stranieri. Arrivarono a sostenere Mobutu e l’UNITA (Unione Nazione per l’Indipendenza Totale dell’Angola): il sangue pare paghi bene. Della serie chi se ne frega dei salotti imborghesiti e radical chic di Georgetown; controllavano la politica, la vita e la morte di milioni di persone. Gli avversari politici di Jonas Malheiro Savimbi, nel frattempo, venivano bruciati vivi. Hanno ricattato dittatori estorcendo denaro, sganciando bombe; solo per i soldi. Per Stone tutto questo, ovviamente, non era né immorale né illegale: era lavoro (forse sport).
Stone’s rule: “In politica solo essere noiosi è peggio che avere torto”
1981: Stone si sta occupando della campagna di Kean come governatore del New Jersey; Trump, dall’altra parte, sta facendo affari per costruire dei casinò ad Atlantic City. Connubio perfetto. I due si incontrano. La Commissione Etica scopre un giro d’affari losco che coinvolge entrambi. Nel 1987 Stone suggerirà a Trump di candidarsi. L’unione perfetta tra politica e affari. Viene organizzato un pranzo, Trump si presenta con il suo elicottero. Il discorso si perde tra il chiacchiericcio dei presenti. Tutto prende nuove forme.
Stone’s rule: “Ciò che è di dominio pubblico è un potenziale bersaglio”
Anno nero, il ’96. Stone stava lavorando per la campagna di Bob Dole, vuole screditare Clinton: gli dà del cazzone. Lì si brucia: salta fuori un pezzo sul National Enquirer: Stone e sua moglie frequentano locali per scambisti. Lo scandalo, velocemente, divora ogni luce.
Stone’s rule: “Negare, negare, negare”
Stone nega, dà la colpa al giardiniere. Lo licenzia. In tv racconta aneddoti della sua famiglia, spera che si calmino le acque. (Più avanti ammetterà di aver mentito spudoratamente). Viene esiliato da Washington. Si sposta nell’ombra.
Stone’s rule: “Reinventarsi”
Coordinate: siamo nel 2000: Bush vs Al Gore, battaglia all’ultimo sangue. Si sa com’è andata. Bush vincerà, ma non avrebbe vinto senza Stone. Stone sapeva di non poter operare direttamente. Decide di aspettare. Siamo in Florida, lo Stato che permise a Bush di vincere, siamo alla Brooks Brothers riot. A scatenarla, permettendo a Bush di vincere, fu Stone. Tornando indietro, siamo nel ’92: come far eleggere Bush? Fa fuori Buchanan. Come? Farlo candidare con i riformisti e fargli correre contro Trump. Stone prima appoggia Buchanan, poi lo molla a sale sulla slitta di Donald. Dai tempi di Nixon Roger è a conoscenza del fatto che Buchanan ha un figlio illegittimo, arriva il ricatto — chiaramente era una balla. Ma Stone dirà che è stato Wayne Barnett a mettere in giro la voce perché quello “spara solo stronzate.” Risultato? Pat Buchanan ottiene lo 0,5%.
Stone’s rule: “Niente è in buona fede”
Ad ogni modo — nonostante gli eccessi e il dadaismo connaturato nel personaggio — Stone rimane un dandy che fa, tutt’ora, bodybuilding. Rimane pro aborto, pro marijuana, pro matrimoni gay e, sì, è stato a un gay pride.
Siamo nel 2014. Stone è nell’ombra dal ’96, cioè da quando la vecchia guardia repubblicana l’aveva ostracizzato; doveva trovare un’altra strada, un altro 2000. Nel 2004 viene accusato di aver falsificato alcuni documenti che distrussero la carriera di Dan Rather per la rielezione di Bush. Poi, non contento usò Sharpton come un Unheimlich (perturbante) contro i democratici. Ha annientato il governatore di New York Eliot Spitzer. In pratica mise in giro una voce secondo cui — a detta di alcune prostitute con cui il governatore di New York sarebbe stato — a tale Spitzer piacesse tenere “i calzini a letto.” Diede una notizia succulenta ai media, sebbene falsa. Poi, tanto per rincarare la dose, Stone disse che Michelle Obama gli aveva dato del “viso pallido” (senza alcuna prova). In seguito l’accusa a Obama di essere musulmano e di essere nato in Kenya. L’importante era farsi notare, fare scalpore, rendersi visibile e insostituibile.
Stone’s rule: “Pensa in grande. Sii grande”
Estate 2015: Trump si candida. Stone gli fa da consigliere; stessa strategia usata con Nixon: alimentare l’odio del Sud perché la gente si rivolti contro l’establishment. Il mantra di Stone era: “Il sistema politico è una fogna. Ho fatto il lobbista, ho lavorato alla Camera, al Senato, so come funzionano le cose e solo Trump può ripulirlo.” Poi il fattaccio: Trump licenzia Stone, Stone dice di essersi dimesso. Le versioni non combaciano. Iniziano a girare voci, pare che un certo Corey Lewandowski abbia agito nell’ombra per silurare il buon Stone. Stone non ci sta, anche perché parte dal presupposto, sbagliato, che Lewandowski significhi “testa di cazzo,” e a lui questo basta e avanza. Inizia una fase di cripto depressione: Trump è un suo prodotto, la sua marionetta, e lo ha lasciato solo. Si arriva a una verità, pare che Trump non sopportasse che la gente potesse pensare che dietro di lui ci fosse Stone, che Stone fosse Trump e che Trump fosse Stone. Ma ecco il punto: il licenziamento era una farsa.
Primavera 2016: Ted Cruz vs Donald Trump. Trump fa fuori Corey “testa di cazzo” Lewandowski, lo sostituisce con Paul Manafort (lo ricordate? Era quello della lobby di Roger). Stone, ovviamente, lo appoggia.
Stone’s rule: “L’odio è uno stimolo più forte dell’amore”
Ci troviamo in piena campagna elettorale e National Enquirer pubblica un pezzo in cui si parla di adulterio per Cruz; unica fonte(?): Roger Stone. Ted Cruz prova ad attaccarlo e provocarlo da Megan Kelly, sulla CNN; Stone, di risposta, diffondeva risate atroci per tutto lo studio. Poi la svolta. Un giornalista chiama Stone: James Comey (ex direttore dell’FBI) ha qualcosa di grosso su Manafort. Sfortunatamente il nostro eroe non riesce a fermare la notizia. La domanda a questo punto è: voleva davvero fermare la news?
Su Politico esce: Political “Hunger Games” roils Trump’s inner circle.
In pratica, secondo un certo Mike Isikoff di Yahoo, Paul Manafort “avrebbe esercitato pressioni per i pakistani.” Trump fa un passo indietro: niente più super PAC e lobby. Era tutto un piano di Stone, sin dal principio.
In quello stesso periodo Stone e Trump sono ai ferri corti eppure, nonostante le apparenze, l’account Twitter di Stone pubblica post che pochi giorni dopo vengono copiati pari pari da Trump. Cala il sipario per un po’.
Torniamo a Cleveland: Trump e il partito sono a un punto di rottura. I repubblicani vogliono togliere la nomination a Trump. Stone si muove. Fa quello che sa fare meglio: manipolare i media. Inizia a presentarsi, quasi morbosamente, ad ogni talk televisivo, su ogni testata. Vuole il sangue, vuole che Trump sia una sorta di VIP e che gli elettori si trasformino in groupie incazzate. Minaccia di rivelare nomi di Hotel e numeri di stanza di tutti i delegati coinvolti nel “Grande Furto.” Il partito trema. Trump regna. Stone vince.
Stone’s rule: “Per vincere devi essere disposto a tutto”
Ai delegati viene impedito di votare secondo le regole, ma il partito è vuoto, stile partito Riformista nel 2000. Vincere, per Trump, diventa un gioco da ragazzi. Stone sbrodola su twitter, a raffica, su chiunque. La CNN gli impedisce di apparire sulla rete perché ha definito Ana Navarro una “violenta” e “ritardata borderline,” Roland Martin uno “stupido negro,” “idiota” e “pedina,” suggerendogli anche di “mangiare più pollo fritto.” A Stone frega poco perché, nella sua visione del mondo, CNN sta per Clinton News Network. Arrivano le accuse a Clinton e Obama: “lui (Obama nda) ha fondato l’ISIS e la corrotta Hillary Clinton è la co-founder”. Poi Mosca.
Inverno 2016, WikiLeaks rilascia le famose email. Il comitato della campagna della Clinton accusa qualcuno dietro Trump di aver complottato con Assange e Cremlino: Stone, nello specifico.
Roger ammette di aver avuto rapporti con Assange. Poi, spudoratamente, smentisce. L’FBI inizia ad indagare su Stone e i suoi rapporti con il Cremlino. Il ritmo è frenesia pura.
Nuova rimescolata di carte: Manafort è fuori dai giochi. I sostituti sono Kellyanne Conway e Steve Bannon. La giungla. Manafort aveva troppi legami con la Russia, troppo lavoro sporco mal pulito. Al team si aggiungono Roger Ailes (ex direttore di Fox News) e, ora formalmente, Roger Stone. Poco dopo esce il video, postato dal Washington Post, del pullman in cui Trump, registrato, appare come un “maiale sessista.” Trump crolla nei sondaggi. Ecco allora Stone che scopre Kathy Shelton. La povera Kathy racconta di essere stata molestata e aggredita dai coniugi Clinton (in due tempistiche diverse). Kathy, si scoprirà solo dopo, era stata pagata 2500 dollari a maggio — dollari provenienti da un super PAC pro Trump gestito da Stone — al solo fine di mentire per screditare l’avanzata democratica. I colpi bassi sono i benvenuti.
I sondaggi sono instabili e Trump, più che un candidato presidente, sembra Kanye West. La campagna è una trincea. Comey, a pochi giorni dalle elezioni, ha novità circa le indagini sul server di posta elettronica della Clinton.
Election Day
576 giorni di campagna e il mondo cambia. La Florida va a Trump. Stone, intanto, è ospite a Infowar, un sito internet per invasati criptofascisti. Arriva il Sud Carolina: il distacco è minimo. Stone non molla, inveisce, twitta, schiamazza, urla, si gratta la testa. Trump ha vinto: 216 collegi elettorali contro 197. Poi 222. La paura, come un miasma senza corpo, pervade le strade del mondo. Una parte di America piange, l’altra festeggia a base di cocaina e caviale. Stone ha cambiato il mondo. A chi lo odia, rispose una volta: “Gioisco del vostro odio. Se non fossi stato efficace non mi odiereste.”