La classica difesa del presidente imbecille
La comunicazione di Trump e associati non è mai stata più berlusconiana: ma è da manuale della disinformazione di destra.
La comunicazione di Trump e associati non è mai stata più berlusconiana: ma è da manuale della disinformazione di destra.
Per chiunque abbia seguito anni fa lo scandalo che avrebbe portato al Processo Ruby, la direzione verso la quale la comunicazione del partito repubblicano statunitense si è diretta in queste settimane era dolorosamente chiara.
Domenica mattina Jay Sekulow, della squadra di difensori di Donald Trump, in onda su ABC News ha presentato l’estrema ratio della difesa repubblicana.
“Mi chiedo perché i Servizi Segreti, se si trattava di malintenzionati, li abbia lasciati entrare del tutto.” ha detto Sekulow durante il talk This Week, “Il Presidente all’epoca era già sotto protezione del Servizio segreto a quel punto.”
Il dato, che per giunta è falso – i Servizi Segreti non avevano ancora iniziato a proteggere i Trump – è straordinariamente fazioso. La protezione da parte dei servizi per i candidati alla presidenza è fisica: contro possibili malintenzionati che desiderino attentare alla vita del candidato. Come potrebbe il servizio segreto proteggere una persona dal fare cose illegali? È semplicemente impossibile.
Il passo successivo, per chi ricorda quei mesi della politica italiana, sarà l’equivalente della votazione parlamentare sulla sincerità di Berlusconi nel credere che Karima El Mahroug fosse effettivamente nipote dell’allora presidente egiziano Hosni Mubarak — ovvero la formalizzazione, on the down low, dell’ignoranza e dell’incompetenza del presidente. Difetti certo, ma difetti endearing, e soprattutto: non reati.
La vittimizzazione del colpevole, raccontato sostanzialmente come utile idiota, senza mai però far scadere il dibattito nella critica o, peggio, nell’autocritica, è il raggiungimento di un traguardo, il perfezionamento di una strategia politica — di base sostanzialmente fascistoide — che mira ad assoggettare e neutralizzare un’accusa, una critica, facendola propria e ribaltandola.
È una pratica che naturalmente indebolisce le strutture democratiche quando condotta da importanti personaggi politici, e che naturalmente sfocia in derive autoritarie — che piú o meno in Italia per ora abbiamo scampato. Sul piano metacomunicativo si tratta, anche, di una dichiarazione di colpevolezza: è necessario provare a leggere la crisi che si dovrà affrontare — cosa fattibile solo combattendo vere accuse e non illazioni.
L’operazione si svolge in tre parti.
1—Discredito
In questa prima fase si lavora interamente per logorare la credibilità politica degli avversari e l’affidabilità della stampa nemica. L’obiettivo è alienare la propria base di supporto nei confronti delle comunicazioni di una determinata area, in modo che qualsiasi informazione giunga da quelle fonti sia automaticamente considerata faziosa, se non del tutto fabbricata.
In questo contesto, la comunicazione di Trump ricorda da vicino quella di Berlusconi, entrambi lamentando spesso una presupposta “caccia alle streghe” di cui sarebbero vittima.
Il vittimismo, appunto, è chiave della retorica destrorsa del discredito — si usa un linguaggio eroico per descrivere le proprie vessazioni, e si dipinge il blocco avversario come solo intenzionato a distruggere: non c’è quasi niente che un fascista ami fare piú che piagnucolare, e per chi è ricettivo nei confronti di quel tipo di comunicazione, è una risorsa preziosissima.
Il costo di imbarcarsi in questa strategia è uno solo, seppur molto alto: prevede l’accettare di non poter mai piú avere una discussione costruttiva verso l’area che si mira a inimicare. Semplicemente, si decide di lavorare in termini di rafforzamento e coagulazione del proprio pubblico e soltanto quello, sperando di vincere.
2—Appropriazione
È possibile che certi argomenti del “nemico” siano semplicemente troppo forti — o troppo veri! — per essere ignorati. Anche alla propria base non si può chiedere di ignorare proprio completamente tutte le prime pagine dei giornali, o quanto gli dice un collega al lavoro.
A voler di nuovo nominare il “Rubygate,” è facile ricordare come fuori dalla retorica pubblica di Forza Italia fosse stata operato un lavoro di comunicazione sotterranea per imporre la narrativa non del presidente puttaniere, ma del presidente sex machine, un’immagine machista irresistibile su cui Berlusconi ancora campa oggi: non il presidente operaio, il presidente bomber.
L’appropriazione nella campagna di Trump è particolarmente evidente sui fronti delle “fake news” e della ingerenza russa sulle elezioni dello scorso anno.
Dopo essere stato accusato per tutta la campagna elettorale di aver partecipato nella diffusione di notizie false, principalmente attraverso una fitta rete di blog provenienti dall’estrema destra, appena eletto Trump ha cambiato musica: adesso le fake news erano un problema, ma non erano le sue — erano tutte le altre.
Così, dopo aver screditato New York Times, CNN, e le testate di area “liberal,” è facile parlare alla propria base e chiamarle fake news media.
Un altro esempio di appropriazione da manuale è quello del termine “ban.” Immediatamente dopo la firma del decreto presidenziale — che poi non fu messo in atto, quella prima volta, la stampa si divise sostanzialmente in due espressioni “Muslim ban” e “Travel ban:” il primo piú efficace nell’indicare la matrice ideologica del decreto, la seconda piú light, ed effettivamente descrittiva dell’argomento.
L’uso del termine “travel ban” è stato, da parte della stampa, un grave errore politico: è così che dal primo febbraio, quando Trump twittava, “Non mi importa se si tratta di un BAN o no” —
— si arriva presto a giugno, quando Trump decide di fare propria l’espressione:
Da allora ha usato il termine con totale nonchalance, operando una programmatica operazione di normalizzazione del concetto e della linea politica stessa.
3—Ribaltamento
Abbiamo visto come, attraverso un lavoro fitto e settario di comunicazione, sia possibile neutralizzare l’opposizione della stampa e fare proprie le critiche, e in generale i suoi argomenti.
Questo lavoro, lentissimo e certosino — che smentisce qualsiasi fantastoria per cui Trump e i suoi associati sarebbero alle prime armi — è ripagato ampiamente non appena si è travolti da una vera crisi, come il caso dell’evidente collusione del figlio Donald jr. con operativi della Russia di Putin.
È possibile osservare, recuperando le reazioni dei primi giorni alle rivelazioni del New York Times, che alla Casa bianca si sperava di poter negare tutto anche questa volta, di potersi scrollare di dosso questa vicenda di nuovo agitando la bandiera appropriata delle fake news.
È diventato presto chiaro che non fosse possibile: non perché le informazioni che i giornali avevano fossero vere — lo erano fin dall’inizio — ma perché erano tante, approfondite, e le lente rivelazioni continuavano a cogliere Trump e associati nelle proprie menzogne.
Qui scatta la terza ed ultima fase di questo percorso — attraverso i meccanismi di vittimismo / eroismo che analizzavamo in precedenza, si inizia a descrivere correttamente l’evento, ma contestualizzandolo in una falsa premessa. Così il parlamento italiano ha votato che Berlusconi effettivamente credesse che Karima El Mahroug fosse nipote dell’allora Presidente egiziano Hosni Mubarak: formalizzando in qualche modo la senilità del proprio leader, ma giustificandolo formalmente di fronte alla legge.
È un’operazione che è stata svolta in infinite occasioni politiche e storiche. La sua forma finale è il luogo comune che il fascismo abbia poche colpe prima che l’ideologia di Benito Mussolini fosse contagiata dalla esclusivamente tedesca malvagità del nazismo. Non si negano — in superficie — gli orrori della Seconda guerra mondiale, semplicemente non era colpa del nostro povero dittatore, che si è trovato all’angolo, costretto collaboratore del genocidio.
Qui si innesca la prossima fase della comunicazione dei Trump: la collusione con la Russia è avvenuta, ma non ha fruttato nessun vantaggio — e per questo non è in nessun modo illegale. Al contrario: noi utili miliardari che ci concediamo allo Stato federale per guidarlo in questo momento di emergenza, non veniamo da questo mondo, e a volte dovrete scusarci, perché non conosciamo i do’s & don’ts della politica.
Al contrario: perché il Servizio segreto / il nostro staff politico / l’FBI — e vedremo questa lista allungarsi nelle prossime settimane — non ci ha protetto da questi elementi pericolosi? Il sottotesto complottista, ovviamente, si innesta perfettamente attorno alla fandonia di un disegno cospiratorio del “deep state,” che vuole silurare la presidenza Trump.
Così si realizza la sterilizzazione del ruolo del giornalismo nelle dinamiche politiche: qualsiasi notizia venga riportata da outlet non di area è automaticamente screditata e non considerata veritiera dalla base, se vi sono elementi che possono essere integrati nella narrativa del governo vengono immediatamente assimilati, infine, se la storia persiste, e non va via, si può sempre girare sottosopra, raccontandola non come un evento ma come una cospirazione, o un incidente, o una situazione costretta.
Questo meccanismo porta in linea diretta dalla democrazia all’autocrazia. Per una serie di fortunate, o forse sfortunate coincidenze storiche — la prima, la crisi economica mondiale — l’Italia sembra aver sfuggito questa deformazione, e oggi viviamo in un altro tipo di caos politico / mediatico. Cosa succederà negli Stati Uniti è, di nuovo, la storia dell’estate.
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