Just Another Gender TheorySei storie vere per raccontare la fluidità di genere

DIAFRAMMA || Questa settimana Filippo Romanelli ci parla del suo progetto Just Another Gender Theory, sulla fluidità di genere.

Just Another Gender TheorySei storie vere per raccontare la fluidità di genere

Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana Filippo Romanelli ci racconta il suo ultimo progetto Just Another Gender Theory, edito da Crowdbooks, in uscita in autunno.


Ciao Filippo, vorrei partire da una frase estrapolata dal tuo sito nell’introduzione al lavoro: “La fluidità di genere è stata in qualche modo formalizzata anche da Facebook che ha inserito ben 58 possibili opzioni di genere nella sezione dedicata al profilo personale.” Rimanendo sospesi tra realtà e social network quale considerazione faresti?

L’idea da cui è partito il progetto è una considerazione davvero banale: quanto e come siamo abituati a pensare al genere come ad una realtà duale. Subito dopo sono stato portato a riflettere su quanto il genere viene costruito socialmente. Da un lato c’è Facebook che da la possibilità di scegliere fra questa infinita varietà di sfumature di genere, dall’altro lato c’è una società in cui già a partire dalla nascita si tende a incasellare, come una sorta di predeterminazione, a porti su di un polo piuttosto che su un altro: la società si aspetta che tu compia determinate attività, che sia stimolato da certi desideri piuttosto che da altri, che abbia un certo modo di esprimerti piuttosto che un altro. È paradossale tutto questo: mentre la società tende ancora a ragionare per opposti, l’individuo ha bisogno di auto rappresentarsi in maniera libera.

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I social network in questo senso sono utili, secondo te?

Nel momento in cui permettono alle persone di rappresentarsi in maniera libera attraverso le svariate sfumature di cui parlavamo, sì.

A proposito di fluidità di genere e di libertà di autodefinirsi, uno dei protagonisti del progetto, Gabriele, ermafrodito, mi raccontava che già dalla nascita ha vissuto questa condizione di fluidità che egli definisce condizione magica del mezzo. A differenza di quanto avviene spesso nei casi in cui nascono bambini ermafroditi, ovvero l’assegnazione d’ufficio del genere femminile in quanto è più agevole operare in demolizione piuttosto che in ricostruzione, Gabriele mi ha raccontato che i suoi genitori gli hanno lasciato libertà di scelta. Nel corso della sua crescita questo fattore lo ha portato persino a sentirsi vittima di questa libertà assoluta. Fin da bambino ha sentito di avere piena libertà nella scelta ma nello stesso tempo avvertiva la pressione di questa libertà, sentiva dietro di sé una famiglia preoccupata per il suo domani.
L’enorme libertà l’ha vissuta quindi anche come un enorme stress.  Gabriele, a questo proposito, mi ha detto: “La massima libertà a volte significa sentirsi in mare aperto. La libertà deve anche essere una conquista, se tu nasci libero è crisi.”

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Come racconti queste storie nel tuo libro?

Il libro si articola grazie a sei storie vere che si mescolano con altre immagini e testi che — in qualche modo — vengono a definire il mio immaginario sul tema, che è naturalmente frutto dei miei ricordi, della mia cultura, la religione… Ho voluto porre attenzione in particolar modo sulla fluidità di genere e sul modo in cui sono stati costruiti socialmente i concetti di maschile e femminile con i conseguenti rapporti di potere e diseguaglianza che sul genere si fondano.

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Il tuo libro, di cui è possibile sfogliare il dummy online, non è di sola fotografia.

È fondamentale sottolineare come la scienza mostri che il genere sia un qualcosa di fluido, che ha molte più varianti rispetto ala differenziazione dicotomica classica maschio/femmina, non sono io che lo dico.

Nonostante questi studi la società, ma anche la comune maniera di pensare delle persone, fa fatica ad andare contro questo modo di organizzare la realtà in categorie: è più facile categorizzare per coppie di opposti piuttosto che sforzarsi di empatizzare.

In copertina, nel dummy, c’è un cubo di Necker. Si tratta evidentemente di un segno grafico bidimensionale che però il cervello vede tridimensionale, alternativamente concavo e convesso, e che così simboleggia la possibilità di vedere le cose in maniera diversa rispetto a come ci sembra che siano. Questo simbolo, ma anche il mio progetto, è un invito a mettere in discussione ciò che ci viene presentato come banale, semplice e ovvio.

Tu sei etero, però. Da dove parte la tua indagine?

Innanzitutto sono partito da una curiosità personale. Tanti mi chiedevano all’inizio perché volessi affrontare questa tematica, soprattutto sapendo che la mia visione era quella di un eterosessuale. Ma come loro si sorprendevano di questo mio interesse anche io mi chiedevo perché questa mia ricerca apparisse loro così strana.

Se pensi che già prima della nascita, grazie a degli esami pre-clinici, ti viene assegnato un sesso, che non è una semplice attribuzione di termini (maschietto o femminuccia) ma piuttosto un’assegnazione rigorosa e precisa di una serie di ruoli di genere e di aspettative che riguardano tutti, nessuno escluso, allora mi sembra davvero che il genere sia una cosa che riguarda tutti.

L’Italia si trova al quarantunesimo posto nella classifica riportata nel libro. Quali realtà conosci direttamente? Cosa ne pensi?

Si deve tenere presente che questa classifica si basa su diversi aspetti quali l’accesso all’istruzione, alla salute, il livello di reddito, è una fonte abbastanza attendibile. Dell’Italia in particolare non mi sorprende molto la sua posizione all’interno della classifica onestamente, visto come vanno le varie discussioni parlamentari sulle questioni di genere.

A proposito dei paesi più o meno avanzati nelle politiche legate alle questioni di uguaglianza di genere, qualche giorno fa un amico mi ha inviato una notizia che riguardava un bambino, nato in Canada, sul cui libretto di nascita alla casella di genere è stata assegnata la lettera U (undefined ndr): si tratta di un genitore che vive una esperienza gender fluid e che si vede riconoscere dal tribunale la possibilità per questo bambino di non avere già alla nascita un’assegnazione di genere definita, ma lascia a costui la possibilità di attribuirsela nel momento in cui avrà l’età e la consapevolezza della propria identità per farlo autonomamente.

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Tornando a te?

Avverto la sensazione che ad alcune persone del mio di contesto di origine non abbia fatto piacere un lavoro di questo tipo.

Ma tralasciando me ti racconto che uno dei ragazzi intervistati mi ha raccontato che è dovuto andare via con tutta la sua famiglia dal suo paese del sud Italia perché le pressioni erano talmente alte da non potere più sopportarle. Situazioni in cui i genitori esercitano una influenza enorme sui figli; uno di loro raccontava che una volta una bambina gli chiese perché lui fosse un mostro mentre i suoi genitori erano normali.


Filippo Romanelli Originario del Cilento, dopo aver lavorato per anni nel settore web fra Milano e l’isola d’Elba, si è trasferito a Firenze dove ha completato un corso triennale di fotografia presso la Fondazione Studio Marangoni. Nel 2016 ho ricevuto la borsa di studio presso la Fondazione.

Il progetto Just Another Gender Theory è stato esposto a Livorno nell’ambito del festival Sex is confusion e presentato in un talk nell’ambito del Forum Italia a Les Rencontres De La Photographie 2016 di Arles ed al Leica Talk del Photolux 2016. Il fotolibro del progetto sarà pubblicato in autunno da Crowdbooks.