Abbiamo intervistato Hozan Ibrahim, ideatore di “Citizens for Syria,” un network di organizzazioni e associazioni locali che lavorano e lottano nella Siria della guerra civile.
Quel è l’obiettivo di Citizens for Syria? Quante associazioni sono state connesse grazie al vostro impegno?
Citizens for Syria è un’organizzazione che mira a creare un network solido tra professionisti operanti in Siria. L’obiettivo è far crescere la coscienza della società civile del Paese. La nostra missione è amplificare la voce di questa terza parte del conflitto. Nella nostra ultima ricerca abbiamo contattato più di 750 associazioni sul campo e 50 media. Abbiamo registrato informazioni che descrivono la differenza tra aree. Informazioni fondamentali per connettere le organizzazioni. Come Citizens for Syria supportiamo anche un progetto chiamato “We Exist!”, un aggregatore di associazioni che si sta espandendo velocemente.
Qual è lo stato della società civile in Siria in questo momento?
Grazie ai dati raccolti possiamo dire che sta crescendo. Nonostante subisca attacchi da ogni parte e di ogni tipologia, la società civile siriana è sopravvissuta grazie alla sua capacità di essere flessibile, grazie alla tenacia degli attivisti e grazie alla necessità dei servizi che fornisce. Bisogna comunque fare una differenziazione a seconda delle aree. Nelle zone sotto controllo dell’opposizione il clima è più “libero” e le associazioni riescono ad operare con un margine di manovra più ampio. Certo, anche qui si notano diversità. Sotto il controllo dei gruppi più radicali, il clima cambia notevolmente. Nelle zone governative l’operato delle associazioni è ostacolato. All’interno di queste aree è possibile fare solo un lavoro di supporto all’IDP, le fasce più disagiate della popolazioni. Le nostre ricerche hanno ravvisato un numero molto più basso di ONG locali rispetto alle altre aree.
La società civile siriana è sopravvissuta grazie alla sua capacità di essere flessibile, grazie alla tenacia degli attivisti e alla necessità dei servizi che fornisce.
Il Rojava è invece il luogo più fertile per l’associazionismo, ma anche qui si ravvisano problemi di interferenze. Nei territori curdi si devono chiedere permessi e autorizzazioni per ogni manifestazione e iniziativa. Le autorità, in questo caso, si mostrano ostili all’operato delle associazioni. C’è poi da considerare l’associazionismo nei paesi limitrofi. In Giordania e Libano ci sono pochissime organizzazioni che riescono a lavorare direttamente con i siriani. Nonostante il quadro non sia ottimo, l’associazionismo germoglia. Ci sono centinaia di ONG che danno lavoro a migliaia di persone. Persone che sfidano coloro che vorrebbero imbrigliare il loro lavoro entro un quadro politico.
Com’è possibile che la società civile siriana sopravviva, considerando anche l’estrema frammentazione del Paese?
Secondo la mia opinione, per tre ragioni fondamentali. Grazie al reale desiderio di cambiamento di molti giovani che hanno rifiutato la violenza come mezzo per risolvere il problema; per la professionalità delle persone sul campo, capaci di espletare servizi che Governo e opposizioni non sono riuscita a garantire; e per l’interesse della comunità internazionale a formare una società civile cosciente. Per tutti questi motivi adesso l’associazionismo è un partner solido e comprovato con cui dialogare sulla questione siriana.
Ma allora perché nessun rappresentante della società civile è stato ammesso ai tavoli organizzati ad Astana, e a Ginevra invece la vostra voce non emerge con forza?
Non può essere presente per sua stessa definizione. Le nostre domande non sono negoziabili. Responsabilità dei crimini commessi, libertà di espressione, democrazia e rispetto dei diritti umani non sono argomenti su cui possiamo fare compromessi. Comunque siamo presenti a Ginevra come gruppi di consulto. Ad Astana non siamo i benvenuti. È una negoziazione tra gruppi armati invitati da Russia, Iran e Turchia. Questi attori non sono interessati ad includere la società civile nella discussione. A validare questo atteggiamento ostracizzante c’è stato il caso dell’iniziativa della “famiglia della libertà”. Si tratta di un gruppo di madri e mogli di detenuti “irregolari” che ha provato ad andare in Kazakistan per chiedere il rilascio dei propri cari. I visti sono stati negati e la delegazione bloccata in aeroporto.
Quali sono le richieste della società civile? E cosa pensi dell’idea trumpiana di zone di sicurezza, può essere un inizio per ricostruire una parvenza di rinascita?
Chiediamo la fine del conflitto e la reintroduzione della libertà di movimento all’interno del Paese. Chiediamo una transizione democratica che garantisca una spazio di manovra alla società civile e ai media indipendenti. Le aree di sicurezza proposte da Trump non sono una novità. L’idea aleggiava nell’aria già da un po’. Credo non sia il percorso più giusto per trovare una soluzione al conflitto, ma solo un modo per risolvere parte del problema. Bisogna fermare i criminali di guerra, non garantirgli l’impunità e territori da controllare. Come può questo discorso essere in linea con la logica della stabilità politica e della democrazia?
Lavorate anche ad un altro progetto, “We Exist!”, cos’è e come può aiutare una pacificazione del Paese?
“We Exist!” è un’iniziativa al cui interno confluiscono i nomi di importanti organizzazioni siriane e attori che lavorano insieme per garantire il ruolo centrale della società civile nelle decisioni sul Paese. “We exist!” è in sintesi la necessità di formare una narrazione diversa della situazione in Siria. Ci basiamo su dati reali e ci avvaliamo della collaborazione di tecnici e professionisti. Questa joint venture opera su tre obiettivi paralleli, ma fondamentali in una sintesi: influenzare il futuro della Siria, contribuendo con informazioni dal campo; garantire un adeguato accesso ad iniziative umanitarie; stabilire le condizioni per una giusta giustizia e una conseguente riconciliazione. Tra tutte le parti in conflitto, la società civile è ancora capace di lavorare insieme. Abbiamo la stessa visione per una Siria democratica. Abbiamo l’esperienza necessaria per lavorare alla ricostruzione della pace nel Paese. Insomma possiamo essere la risposta alla guerra.
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