How far now? L’accoglienza raccontata dai migranti
Questa settimana abbiamo parlato con Ilaria Crosta e Niccolò Hebél del loro progetto How far now? Migranti, accoglienza, raccontata dai protagonisti.
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo (in questo caso molti di più), e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Ilaria Crosta e Niccolò Hebél del loro progetto How far now? Migranti, accoglienza, raccontata dai protagonisti.
Come è nato questo lavoro?
Il lavoro è nato da una proposta di residenza d’artista che ci è arrivata dopo aver presentato una nostra fanzine alla scorsa edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia. Sono state Alessandra Calò e Irene Russo, membri del Comitato cittadini di via Roma che a proporci la residenza: ne organizzano ogni anno 4-5 per poi portare il frutto dei lavori in mostra durante Fotografia Europea.
Una volta accettato, ci hanno fatto vedere alcune location tra cui Hotel City, che all’epoca ospitava tre mostre al suo interno; durante l’esposizione erano già presenti dei ragazzi, migranti, che però non erano stati coinvolti. L’hotel non era ancora stato ristrutturato, aveva un fascino lynchiano, aveva i muri coperti da piastrelle blu alternate da pareti bianche sporche. Ma l’atmosfera a noi è piaciuta subito. Arrivavamo da un primo lavoro chiamato sans titre, che ruota intorno alla sensazione di periferico: la periferia intesa come metafora di una sensazione che rappresenta il nostro quotidiano, il sentirsi periferici alle cose che facciamo, a un luogo che viviamo. Il tema sembrava adattarsi perfettamente anche alle loro possibili sensazioni, al loro viaggio, alle loro aspettative e a questo arrivo brusco che intorno trova spesso porte chiuse.
Che cos’è Hotel City?
È un albergo che, secondo quanto si trova su internet , dovrebbe essere chiuso, per una decisione dei Vigili del Fuoco. Nonostante questo, le stanze vengono affittate ad una cooperativa, la Dimora d’Abramo.
Non si tratta dunque di un centro d’accoglienza: qui sono ospitate diverse persone, tra cui persone italiane o straniere che si trovano lì per avere un tetto. Non solo migranti, ma anche persone anziane sole o ancora con problemi di natura psicologica, seguiti dalla Croce Rossa o altri Enti Sociali. All’interno della struttura ci sono una ventina di camere con circa sei letti ognuna e un paio di bagni a piano. Hanno coperte ma non lenzuola, nei bagni c’è acqua in terra ovunque, non hanno nessun operatore fisso. Tutti i ragazzi sono lasciati in balìa di loro stessi, non hanno idea di quando potranno andare via. Noi abbiamo chiesto alla Dimora d’Abramo durante il progetto, ma ci hanno risposto semplicemente che avremmo potuto fare quello che volevamo, che a loro non interessava il nostro progetto.
Perché loro non erano collegati direttamente ai migranti?
Noi abbiamo chiesto se potevamo portare in giro i ragazzi, non sapendo che permessi avessero, come erano registrati, se avevano il Visto. Ci hanno semplicemente risposto che potevamo fare quello che volevamo.
In quel periodo però abbiamo avuto l’opportunità di visitare alcuni veri centri di accoglienza, che funzionano molto bene — molto distanti dalla realtà che avevamo appena conosciuto.
Chi è il proprietario di Hotel City?
Due fratelli che possiedono anche un altro albergo a Reggio Emilia. Hotel City in passato funzionava soprattutto con lavoratori temporanei; da qualche anno invece vengono affittate le camere alla cooperativa. Viste le condizioni dell’albergo, come detto, abbiamo provato ad instaurare un contatto con la cooperativa: ci hanno liquidato sostenendo che visto che avevano una sorta di accordo che non è stato mantenuto, relativo a dei fondi versati ai proprietari in favore di una ristrutturazione che non è mai stata fatta, a breve non avrebbero più inviato i migranti da loro ospitati nell’Hotel City. Sono passati circa tre mesi da questo episodio e l’albergo è sempre pieno.
La cooperativa usufruisce solo di questa struttura?
No, ne ha diverse in tutta l’Emilia Romagna. Ad esempio alcuni ragazzi sono stati spostati da Hotel City a Brescello, nonostante la mensa e la scuola siano rimaste a Reggio Emilia. Tutte le mattine dunque, i ragazzi devono camminare una mezz’ora fino alla prima fermata dell’autobus e fare un’ora di viaggio per andare a mangiare.
Passiamo ai ragazzi: qual è stato il vostro approccio?
Li abbiamo incontrati una mattina di settembre dello scorso anno all’Hotel City, per bere un caffè (in ciotole da gelato) e spiegare loro li progetto fotografico che avevamo in mente. Non abbiamo avuto il tempo di dare ulteriori dettagli che già i ragazzi ci sollecitavano per iniziare quanto prima. Ci siamo trovati due ore dopo il nostro primo caffé in giro per il centro di Reggio Emilia insieme a loro, con una sola usa e getta in quindici persone – non avevamo messo in conto di iniziare in così breve tempo – a fare qualche scatto e conoscerci meglio, scambiare chiacchiere, giocare a pallone. È così che abbiamo pensato e sviluppato il progetto: far scattare fotografie direttamente ai ragazzi, per capire loro come vedevano la città in cui vivevano. Il progetto How far now? non è stato fatto sui migranti ma con i migranti.
La residenza d’artista è proseguita in maniera autonoma?
Sì, anche perchè il Comitato, dopo averci messo in contatto con questa realtà non è intervenuto nel progetto, conoscevano poco lo stesso Hotel. Ci è stato messo a disposizione un piccolo budget, per il resto carte blanche.
C’è da dire che durante la residenza siamo stati ospitati da alcuni membri del Comitato dei cittadini, ogni sera da una persona diversa, così per conoscere meglio il quartiere. Questa cosa chiaramente ci ha permesso di creare una connessione tra i migranti che vivono all’interno di Hotel City e la gente del quartiere, perché prima non si conoscevano. Nel quartiere ci sono orti comuni e una cinquantina di persone si dedica ad attività che hanno la caratteristica di essere collanti sociali.
Il progetto dunque è frutto di una vera e propria collaborazione con i ragazzi di Hotel City insomma.
Assolutamente! Le foto sono sia nostre che loro. Con loro abbiamo curato anche l’editing delle immagini, la sequenza del libro, la messa in pagina: sono stati attivi e collaborativi in tutte le fasi del progetto. Sono stati coinvolti anche nella fase di allestimento della mostra all’interno dell’hotel.
L’idea progettuale coincide con l’esito finale, anche di allestimento all’interno di Hotel city?
Abbiamo avuto solo un momento di indecisione perchè non sapevamo se avessero chiuso o meno la struttura, ma la volontà è sempre stata quella di esporre all’interno di Hotel City. Il nostro intento non era di avanzare una protesta, piuttosto quello di fare emergere che all’interno di via Roma c’è anche questa realtà — abbiamo cercato di aprire un canale di comunicazione. Questo non è che l’inizio di un progetto che deve sicuramente trovare più spazio e maggiore risonanza. Spesso si sente dire che i migranti vivono in hotel a 4 stelle, che hanno il wi-fi e ogni altra comodità, qui purtroppo non è così. Durante l’inverno ai ragazzi non venivano consegnati abiti adeguati alla stagione e il riscaldamento all’interno delle stanze va e non va. Per fortuna tutto il Comitato si è smosso per portare maglioni, scarpe, e altri beni necessari. La Caritas e la Dimora d’Abramo sono state più volte sollecitate ma quest’ultima si è mossa solo quando gli è stato intimato che sarebbe arrivata la stampa.
Insomma, in mezzo a tanti dubbi e inciampi siamo riusciti comunque a realizzare la mostra all’interno dell’Hotel, nonostante i ragazzi con cui avevamo realizzato il progetto ormai erano stati spostati in altre strutture.
Che significato ha avuto per loro la fotografia?
Possedere un oggetto. Avere la fiducia di qualcuno che ti fa fare qualcosa e ti coinvolge. Per alcuni era un gioco. Li abbiamo coinvolti anche nell’editing, ognuno è stato partecipe nella scelte delle foto stampate. A loro chiedevamo sempre il perché della scelta.
Un aneddoto di questo momento è rispetto ad una foto esteticamente poco significativa. Si tratta di una sorta di scultura dove è presente un pesce all’interno di un secchio. Il ragazzo che l’ha scattata ci ha raccontato che non era normale che un pesce fosse fuor d’acqua, ma lui si sentiva proprio in quella condizione: ne aveva dato una lettura del tutto personale.
Gli avete dato qualche dritta prima di iniziare il progetto?
Abbiamo fatto una giornata durante la quale gli abbiamo spiegato le differenze, a grandi linee, tra un genere e l’altro. All’unanimità hanno proposto come linguaggio una sorta di diario personale; noi abbiamo suggerito lo stile della fotografa Nan Goldin. È così che abbiamo deciso che avrebbero raccontato il loro quotidiano.
Quali sono le storie di questi ragazzi?
Abbiamo conosciuto soprattutto nigeriani, ma i loro background erano molto diversi tra loro: c’era chi faceva il dj a Lagos City e chi, prima del viaggio, non aveva mai visto il mare.
Come avete presentato questo lavoro durante Fotografia Europea? I ragazzi erano presenti?
Alcuni, quelli che siamo riusciti a raggiungere o accompagnare, perchè molti si erano spostati e non avevano modo di tornare a Reggio Emilia.
Durante la mostra, eravamo all’ingresso, ma ci siamo nascosti perchè volevamo che le persone entrassero da sole all’interno. Il luogo in sé non era invitante, i testi li abbiamo messi di proposito all’ultimo piano, al termine della mostra: volevamo creare una sorta di spaesamento.
Mi fate venire in mente una cosa: voi avete una fanzine ed una mostra tutta vostra ma voi non ci siete!
(risate)
In realtà alcune foto ci sono, nei crediti al termine della fanzine ci siamo anche noi. Non volevamo fosse rappresentata solo la giornata di Hamed, Gomez o Davidson, ma la giornata-tipo di una persona che è appena arrivata in Italia.
Anche nelle presentazioni che abbiamo avuto modo di fare prima di Fotografia Europea ci hanno accompagnato.
Ilaria Crosta
Nata a Torino, è cresciuta in Francia e ha completato i suoi studi presso l’Accademia di Venezia in Nuove tecnologie per le arti. Collabora dal 2009 con Giorgia Fiorio, nello stesso anno diventa sua assistente. Co-fondatrice di YET Magazine nel 2012. Prosegue i suoi lavori a Parigi con il festival Circulation(s), collabora con diversi fotografi. Il lavoro “Sans titre i/n” viene pubblicato ed esposto in diverse occasioni. Nel 2016 frequenta la Fondazione studio Marangoni di Firenze, co-fonda in seguito, con Niccolò Hébel, Zine tonic casa editrice indipendente.
Niccolò Hebél
Nato a Parigi, è cresciuto circondato dalla fotografia, che non è però la sua prima passione. Suona come bassista in una band e pratica graffiti per anni, ha preso parte all’apertura della Galleria 159, una delle prime gallerie di street art a Parigi. Dopo una formazione di design industriale e arte visiva preceduta da una scuola di ceramista, collabora con l’artista scultore Fabrice Langlade. Affascinato dalla scenografia, collabora con le squadre di montaggio delle Rencontres d’Arles, e poi su vari progetti come Nuits Blanches e fiera del libro. Coordinatore per Fetart durante l’edizione 2013/2014 del Festival Circulation(s). Nel 2016 frequenta la Fondazione studio Marangoni di Firenze, co-fonda in seguito, con Ilaria Crosta, Zine tonic casa editrice indipendente.
Per i lavori completi clicca qui.