Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Helena Falabino di sex workers, sessualità, limiti, gigolo e società.
Chi sono e come svolgono il loro lavoro le sex workers che hai conosciuto e che racconti nel tuo progetto Rede mit uns?
Sono tutte molto diverse e ognuna di loro svolge il proprio lavoro a seconda di caratteristiche personali: dato che non stiamo parlando di sfruttamento, ma stiamo parlando di lavoratrici indipendenti, ognuna di loro decide come lavorare. Ti faccio un esempio: Johanna, 45 anni, è una dominatrice, lo fa da sempre e non ha tabù, nessun tipo di remore. Tra i suoi clienti, tanti hanno represso le loro fantasie nel corso della vita — si tratta di persone che devono rielaborare i propri desideri, c’è anche una componente psicologica molto forte. Un altro esempio può essere Lucia, che è sì una dominatrice, ma intoccabile: è una condizione che lei impone. Lo fa presente a priori, la pone come regola, durante gli incontri chi tocca è lei, il cliente deve rimanere fermo.
Altro aspetto sono gli orari: può sembrare una banalità ma bisogna tenere presente che alcune donne non fanno solo questo come lavoro. Mara, 54 anni, ha sempre lavorato come infermiera per esempio: ha iniziato qualche anno fa con il lavoro sessuale, imparando le tecniche della dominazione e del massaggio tantrico. C’è poi Sunny che lavora perfino con il marito, nel senso che è lui che cura la sua immagine sui social: è lui che fa le fotografie, crea i set, ed è lui che segue il processo di upload sui vari canali on line. Può suonare strano ma loro rimangono una coppia come tante altre: non si può dire che non siano particolari, ma io ho potuto vedere molta sincerità e condivisione in quello che fanno, anche divertimento in un certo senso. Lei sostiene che fa questo lavoro perchè si diverte, anzi, senza il divertimento probabilmente non lo farebbe. Ho pensato che da parte del marito ci sia un atteggiamento voyeuristico, ma finché fanno questo lavoro per scelta, volontaria e libera, non vedo perchè dovrebbero essere trattati in maniera diversa da altre coppie.
Quello che le accomuna tutte comunque è la volontà e libertà di poter esprimere la propria sessualità, così come i propri limiti, ognuna di loro ne ha e li impone ai clienti, proprio per questo c’è un momento di comunicazione molto importante che deve precedere gli incontri.
Quest’ultimo aspetto accomuna chiunque: abbiamo tutti dei limiti, sempre diversi, nell’esercizio della propria sessualità.
Certo, siamo essere umani, quindi nella sfera più intima e personale ovvero quella sessuale, sei tu a decidere il punto oltre il quale non andare. Molte di loro mi hanno raccontato di clienti che le contattano per poter affrontare pratiche sessuali che con le proprie partner non riescono ad avere. Capita che le partner siano anche consenzienti.
Come si fanno contattare?
Io le ho contatte tramite un sito che funziona come un motore di ricerca. Lì puoi mettere i tuoi interessi, l’età o altri filtri, così da poter vedere i profili che più si avvicinano ai tuoi desideri. È una piattaforma che non ho indagato a fondo, nel senso che non volevo precludermi in un solo ambito, però come tante altre piattaforme è ricca di strumenti di ricerca. Ad ogni modo i primi contatti li ho avuti attraverso l’Associazione di categoria per i servizi erotici e sessuali (BesD).
Quando le contattavi si rendevano disponibili?
Moltissime non hanno risposto o mi hanno detto di no. In un anno e mezzo sono riuscita a fotografare una decina di ragazze, poche rispetto a quante sono veramente, ma è un ambito che come è facile immaginare non è così accessibile. Naturalmente ho dovuto frequentarle, farmi conoscere e fare in modo che si fidassero di me prima di iniziare a scattare. Nonostante mi trovassi in una società come quella tedesca, dove questo lavoro è legale, per molte di loro non è ancora facile dire ad alta voce e apertamente il lavoro che fanno, cosa che bisogna rispettare, esattamente come si deve rispettare chi invece decide di fare outing e di non avere problemi a presentarsi in pubblico come lavoratrice del sesso.
Hai scattato solo sex workers tedesche?
Due di loro provengono dagli Stati Uniti, ma ad ogni modo ho lavorato solo con persone che esercitano in Germania. È stata la mia base per poi andare a trovare le ragazze che accettavano di farsi fotografare a Berlino e dintorni.
Rede mit uns, il titolo del progetto, prende spunto da un convegno tenutosi in Germania: è stato questo il tuo punto di partenza?
Sì, non si trattava però di un vero e proprio convegno aperto al pubblico, era piuttosto un congresso sul lavoro sessuale in Germania organizzato dall’associazione di categoria per i servizi erotici e sessuali, fondato da Johanna Weber, che ho avuto modo di intervistare e fotografare. Lo slogan era Rede mit uns statt über uns, che tradotto significa ‘Invece che parlare di noi, parlate con noi’, riferendosi al fatto che la maggior parte delle persone sembra avere un‘idea ben precisa del lavoro sessuale e sono tutti pronti a dire la loro sulla legalizzazione o meno, ma la verità è che poche persone hanno avuto modo di parlare con le lavoratrici di come sarebbe meglio regolamentare il lavoro sessuale. Quindi era anche un invito da parte delle sex workers per farsi conoscere. L’intenzione era quella di riunire le lavoratrici sessuali in un paio di giornate per stabilire un confronto tra loro. È importante dire che oltre alle lavoratrici erano stati inviati alcuni avvocati per parlare della questione legislativa, c’erano rappresentanti di partiti politici, invitati dalle sex workers così da sollevare alcune problematiche. Questo evento è stato ospitato dall’Univerità Humboldt di Berlino, una delle più prestigiose della Germania, a sottolineare la dignità e la rilevanza che viene dedicata a questo tema all’interno di un contesto aperto e pubblico. Non riesco a immaginarmi un convegno di lavoratrici sessuali alla Sapienza di Roma o a Milano.
Tu hai partecipato dunque.
Si, durante il convegno c’erano dibattici aperti e dibattiti riservati alle sex workers e alcuni workshop di diverso tipo. Una cosa che mi ha colpito molto è stato il rispetto che si chiedeva nei confronti delle sex workers: a tutti gli ospiti era richiesto di non fare troppe fotografie e di chiedere se le dirette interessate volessero essere ritratte o meno. Si chiedeva rispetto reciproco. Un’altra richiesta che veniva fatta, ma che era anche sottesa, era quella di non vittimizzare tout court le lavoratrici del sesso quando non sono loro le persone che devono essere salvate: le sex workers tedesche chiedono più tutele a livello legislativo e non restrizioni, perchè quelle servono solo a peggiorare le loro condizioni di lavoro, e chiedono che la tratta di esseri umani sia un argomento al quale dedicare particolare attenzione ma di distinguerlo categoricamente dal mondo del lavoro sessuale autodeterminato.
In Germania l’argomento è affrontato in maniera libera mi sembra di capire.
Non è un argomento all’ordine del giorno, però è un dibattito aperto. Capita che alcune sex workers vengano intervistate o che partecipino a talk show televisivi. Io mi sono interessata a questa tematica perchè un giorno sono andata ad una serie di conferenze sull’Europa organizzata dal Taz, uno dei maggiori quotidiani tedeschi; tra i vari eventi c’era un dibattito proprio sul lavoro sessuale. Lì, per la prima volta, ho visto una sex worker parlare per sé stessa su un palco e dialogare con una giornalista.
Con quale termine possiamo riferirci a loro senza mancare di rispetto?
Loro utilizzano la parola Sexarbeiterin, il termine più neutrale. Alcune si definiscono dominatrici, altre puttane senza alcuna riserva. Con una ragazza ho avuto una bella conversazione proprio sul termine prostituta. Mi raccontava che per lungo tempo non si definiva prostituta perchè le sembrava suonasse strano riferito a se stessa. Come molte altre, si definiva dominatrice e basta, sottolineando il fatto che negli incontri con i suoi clienti non avvenissero mai rapporti sessuali completi; ha poi realizzato che anche fare dominazione significa vendere sesso, e che quindi non ci fosse niente di male nel termine prostituta. Ha capito che anche fra lavoratrici sessuali vi è uno stigma sulla parola prostituzione, e che è sbagliato, così lei ha iniziato ad utilizzarlo per non fare distinzioni fra lei e altre colleghe che lavorano in modo diverso rispetto a lei.
Queste donne sono a tutti gli effetti libere professioniste.
Sì, e come ogni libero professionista hanno l’equivalente della nostra partita IVA. C’è una legislazione specifica, sempre in evoluzione e con alcune differenze a seconda dei Länder tedeschi. In mezzo a tanta normativa anche loro a volte hanno timori su quello che effettivamente è consentito fare, per esempio lavorare in casa è vietato.
Da circa un anno sei tornata in Italia, hai provato a proseguire questo lavoro?
In realtà da quando sono tornata ho scoperto che qui molte donne comprano servizi sessuali da uomini, e ho iniziato a fare alcune ricerche in merito, che però non hanno ancora dato vita a un progetto.
Ci vuoi raccontare qualcosa? Hai usato lo stesso approccio?
Praticamente sì, ho contattato gli uomini in rete, chiedendo di poterli ritrarre nel loro ambiente domestico e fare un’intervista sulla loro esperienza lavorativa. Hanno risposto subito in maniera positiva — “Così mi fai pubblicità,” ha detto uno — ma si sono tutti tirati indietro sul farsi ritrarre a casa loro. Onestamente non so come interpretare questa cosa, ma è stato l’elemento che mi ha fatto ripensare all’approccio che vorrei avere con l’argomento, quindi anche per questo il lavoro è fermo.
Secondo te qual è la differenza tra donna e uomo in questo lavoro?
Credo gli uomini facciano meno filosofia delle donne, sono più pratici. È ovvio che per entrambe le parti la componente economica sia rilevante, ma le donne hanno un approccio più personale con questo lavoro, lo analizzano come percorso di vita. La differenza fondamentale che ho rilevato (su un numero ristretto di persone, sia chiaro) è che per gli uomini è decisamente meno problematico divulgare la propria immagine in pubblico come lavoratori sessuali. Credo che le donne che decidono indipendentemente di vendere prestazioni sessuali in maniera autonoma e volontaria debbano o rendere conto delle proprie azioni alla società oppure nascondersi, mentre gli uomini non sono chiamati a giustificarsi se decidono di vendere prestazioni sessuali, o per lo meno non vengono subito vittimizzati. Ovviamente queste sono opinioni personali maturate dopo aver parlato con un numero ristretto di persone che ho conosciuto: non si può fare un discorso generalizzato per tutti quando si parla di lavoro sessuale, soprattutto quando, come nel mio caso, non si è sex workers.
Sul sito presenti ogni ragazza con un breve estratto delle interviste che hai fatto. Mi hanno colpito la storia di *spiralena* ed E.; ci puoi raccontare la tua esperienza con loro che rappresentano gli antipodi?
*spiralena* sostanzialmente è una attivista e fa progetti pornografici. Ha collaborato per un po‘ con una associazione che si chiama Fuck for Forest , guidata da una coppia hippie. Facevano video porno che vendevano su internet per poi devolvere i proventi per la salvaguardia delle foreste. È stato girato anche un documentario, nonostante loro si siano dissociati da questo. Non so se *spiralena* continui a collaborare con loro, ma quando l’ho conosciuta prendeva comunque parte a progetti di porno queer e sperimentali, senza puntare al guadagno, ed è per questo che lei non si definisce una vera e propria sex worker ma una sex activist.
E. invece?
E. faceva questo lavoro con estrema gioia e professionalità. Ha accettato subito di far parte del mio progetto — mi aveva colpito molto per la sua bellezza. Conoscendo le sue vicende familiari un po’ problematiche, non mi sono stupita di quando a progetto concluso mi ha chiesto di esserne esclusa, poichè a malincuore aveva smesso di lavorare a causa dei famigliari. Alla fine ho deciso di mantenere la foto, ma censurandola.
Vengono in mente le presunte censure imposte sui social; questa tua scelta è molto significativa e racconta lo sviluppo personale di una di queste donne.
Lo è perchè parla dei condizionamenti sociali. Ho deciso di tenerla all’interno della serie perchè trovavo molto significativo questo evento successivo al momento dello scatto, perchè lo stigma sociale è la realtà quotidiana per moltissime sex workers. Volevo che questa fotografia parlasse di come la società sia capace di farci censurare anche la bellezza.
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Helena Falabino è una fotografa italoargentina nata nel 1988. Dopo essersi diplomata alla Ostkreuzschule für Fotografie und Gestaltung di Berlino, fa alcune esperienze di ufficio stampa e collabora come giornalista per GUP Magazine ad Amsterdam. Al ritorno in Italia inizia a collaborare come guida al Museo Internazionale del Cinema a Torino, città in cui tuttora risiede, e con l’associazione di fotogiornalismo Eikòn, oltre a lavorare ai suoi progetti personali.