A schierarsi più duramente contro Netflix è stata la Federazione del Cinema Francese (FNCF), che ha lamentato un’incongruenza rispetto ai limiti imposti dalle leggi francesi e tasse non pagate.
Non sono tempi facili per il servizio on demand di Los Gatos: nel nuovo quadrimestre Netflix ha assistito ad un calo delle iscrizioni — la causa, secondo gli esperti, è la mancanza nell’ultimo periodo di un prodotto in stile House of Cards capace di attirare nuovi iscritti. Come riportato da Bloomberg, il servizio è stato capace negli ultimi quattro mesi di attirare quasi 5 milioni di utenti, il che però non è stato sufficiente per raggiungere la cifra di 5,49 milioni prevista dagli analisti di borsa.
Per sopravvivere, Netflix ha bisogno di una costante ondata di iscrizioni attraverso cui alimentare le proprie produzioni — per questo motivo ha dichiarato l’intenzione di spendere più di 15 miliardi nei prossimi cinque anni per produrre contenuti originali, confermando, in una live su YouTube, la volontà di raccogliere fondi nel prossimo quadrimestre attraverso debiti a lungo termine.
Adottare una strategia di investimento così dirompente è sempre stata una prerogativa di Netflix, basti pensare che alla base del servizio soggiace il concetto di binge watching: il desiderio fisico di rimanere “incollati” davanti a film e serie tv. Ma in questo caso l’aggressività di Netflix va oltre la semplice acquisizione clienti e per la prima volta il suo monopolio nello streaming on demand è messo in dubbio dalla nascita o sviluppo nello stesso settore di nuovi servizi. Progetti come Hulu e Filmstruck hanno imparato dal loro cugino californiano e, dopo aver mosso i primi passi, minacciano di correre al pari di Netflix — allo stesso modo network televisivi come HBO, Starz e Showtime si stanno dotando di servizi online propri, con i quali fidelizzare utenti già presenti sulla loro programmazione.
La soluzione per Netflix? Essere ovunque, anche dove probabilmente non dovrebbe essere.
In quanto sistema produttivo, oltre che distributivo, Netflix si deve rapportare con le realtà dell’intrattenimento cinematografico come le istituzioni, i garanti, i festival e i media. Tali rapporti non sono sempre stati dei migliori: Netflix è spesso stato additato come la fine del cinema, in grado di demolire l’azione catartica del grande schermo attraverso una overdose di contenuti. Se da una parte questa affermazione potrebbe risultare vera, dall’altra ci troviamo comunque di fronte a un’esagerazione culturale visto l’alto numero di produzioni targate Netflix che, a conti fatti, mantengono un chiaro valore artistico. Senza poi dimenticare l’aumento di possibilità di impiego nel settore grazie agli investimenti fatti da Netflix — quindi no, Netflix non è il male, ma tolta la santità, rimane un’azienda con i suoi difetti. Per esempio una spiccata propensione allo schivare tassazioni nei vari paesi che ospitano il servizio.
netflix and alone
— Friedrice Nietzsche (@tinynietzsche) September 25, 2015
Il festival di Cannes – noto momento culturale in cui lo scandalo parla ancora prima dell’arte – ha ammesso alla sua 70° edizione di quest’anno ben due pellicole prodotte da Netflix: Okja, del regista sudcoreano Bong Joon-ho, entra tra i film in corsa per la Palma d’Oro, mentre The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach, apprezzato autore di commedie, è stato inserito tra i fuori concorso.
La scelta di aprire la competizione alle produzioni di Netflix non è certo un precedente, già nel 2015 Beasts of No Nation – produzione originale del portale on demand e diretta dal talentuoso Cary Fukunaga – era stato presentato in anteprima durante la 72° edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, a cui era seguito il Festival Internazionale di Toronto.
Nulla di nuovo e nulla per cui scandalizzarsi quindi, se non l’inevitabile imbarazzo festivaliero prontamente arginato dal direttore artistico Thierry Fremaux.
“Vogliamo convincere Netflix a prestare attenzione al cinema nello stesso modo in cui prestano attenzione a registi. […] Voglio che prendano tutti questi soldi e che prestino attenzione ai cinema. Fa parte del senso comune, il motivo per cui i cinema esistono è condividere qualcosa tutti insieme. Non è facile, e ovviamente abbiamo molto affetto per tutte le componenti del cinema … ma dobbiamo anche prestare attenzione a come sta cambiando il mondo”, ha affermato Fremaux in un Q&A ripreso dall’Hollywood Reporter.
A schierarsi più duramente contro Netflix è stata invece la Federazione del Cinema Francese (FNCF), che ha lamentato un’incongruenza rispetto ai limiti imposti dalle leggi francesi: secondo la giurisprudenza i servizi SVOD (Streaming or Subscription Video on Demand) devono aspettare 36 mesi dal rilascio del film su grande schermo prima di poter trasmettere sulle proprie piattaforme. I due film, presentati a Cannes e di cui è già stata annunciata la data di rilascio sul portale on demand, mettono dunque Netflix in una situazione particolarmente complessa — non solo gira la voce di un possibile annuncio di rilascio cinematografico, oltre che in streaming, il che complicherebbe il rapporto già teso con produttori e distributori, ma si fa avanti anche l’ipotesi di un conflitto legale con le istituzioni francesi.
A questo si aggiunge un’accusa, sempre da parte della FNCF di tasse non pagate nel corso degli anni. Con una dichiarazione, la Federazione ha ricordato che “le regole imposte sono le basi della struttura finanziaria di un’industria cinematografica esemplare nel nostro paese, e questo è ciò che permette a molti dei film francesi e non della Selezione Ufficiale di Cannes di essere prodotti”.
Per quanto Netflix possa trattare una materia più nobile rispetto all’e-commerce di Amazon, i social di Facebook o il noleggio auto di Uber, l’impronta californiana rimane ben visibile negli intenti della compagnia di Los Gatos. Al segnale di apertura di Cannes, Netflix dovrà far seguire un rapporto di chiarezza con le istituzioni se veramente intenzionato ad entrare nel circuito cinematografico francese — questo, o l’aggressività porterà l’azienda verso uno sgretolamento locale simile al caso Uber e a rimetterci sarà come sempre lo stato dell’arte.