L’identità culturale della sedia
Dall’antico Egitto al design contemporaneo, la storia di un oggetto semplice come la sedia porta con sé eredità ingombranti e cicatrici culturali.
Entrando in una casa giapponese, i nostri occhi europei notano subito che chi la abita in genere si siede per terra o su mobili molto bassi. Da cosa deriva questa differenza di sedute vedute? Perché in Estremo oriente, fino a qualche decennio fa, le sedie non esistevano?
Un primo antenato della sedia risale all’antico Egitto: più che una vera e propria sedia, oggi la paragoneremmo a un trono. Era l’unico oggetto rialzato pensato per far sedere qualcuno. Tuttavia, era ben lontana dall’essere intesa come mobilio d’arredo per l’abitazione e, certamente, non era pensata per tutti. Solo il faraone – o comunque una figura che si trovava molto in alto nella piramide sociale – aveva il beneficio si utilizzarla.
Nell’antica Roma, invece, ha fatto la sua comparsa la sella curulis, una sedia a X pieghevole usata unicamente dai re e dai magistrati – da qui il nome curulis, “della curia.” Questo tipo di sedia ha fissato le basi per lo sviluppo della sedia contemporanea. Si è lentamente evoluta durante il Medioevo, durante il quale ha continuato ad essere un’esclusiva del clero e dei ceti nobiliari, conservando i caratteri sfarzosi. Solo a partire dal 1400 l’evoluzione della sedia ha avuto un’accelerazione, fino a diventare, nella modernità, l’oggetto di design – rivisitato e stravolto innumerevoli volte – che conosciamo oggi.
Secondo Witold Rybczynski, che ha scritto sulla sulla Paris Review un articolo dedicato all’argomento, tra i motivi principali, e più plausibili, sul perché in Occidente si usano le sedie c’è la questione della postura. Tra il Settecento e l’Ottocento una serie di studi di ortopedia asserivano che sedersi per terra richiedesse uno sforzo eccessivo per la colonna vertebrale, e sostenevano la necessità di un appoggio per la schiena per ottenere il rilassamento del corpo. Sedersi per terra richiederebbe anche abiti adeguati che ne facilitino l’atto, come ad esempio i kimono e i sandali giapponesi. Il modo di vestire occidentale, invece, non lo permette facilmente.
Queste ragioni – per la verità abbastanza banali – potranno magari spiegare perché sarà difficile che si abbandoni mai l’abitudine di usare le sedie per sedersi, ma non ne spiegano l’origine. Tradiscono inoltre una concezione stereotipata e semplicistica delle culture orientali — sottintendendo che la società occidentale sia l’unica ad aver trovato, anche nell’arredamento, una soluzione superiore, scientificamente esatta, da insegnare alle altre civiltà.
La sedia ha avuto origine in contesti in cui vigeva il potere regale, l’unico beneficiario del mobile. I re davano prova della loro magnificenza attraverso lo sfarzo; quindi, quanto più poteva essere grande il trono, tanto più appariva maestoso chi ci si sedeva. L’idea di “alto” e di “basso” era impiegata anche per rappresentare la gerarchia sociale: quanto più si era in alto, tanto più si ricopriva una carica importante. Sollevarsi da terra, quindi, deriva dalla volontà di dimostrare la propria superiorità sugli altri.
Fino a meno di un secolo fa – un arco temporale ripercorribile anche solo attraverso la memoria viva – la sedia faceva parte di una serie di oggetti che servivano a testimoniare anche in via simbolica la presunta superiorità dell’Occidente sulle colonie. Esiste un’immagine risalente al periodo fascista, dal titolo Banchetto in Etiopia, che ritrae due soldati italiani in una spedizione nella giungla del Paese africano. I soldati indossano abiti lunghi e bianchi, sono seduti a un tavolo – ci sono anche le sedie, ovviamente – e sono intenti a mangiare. Il tutto con un uomo etiope che sta di fronte a loro in piedi e quasi nudo.
Nessuno si sognerebbe di portarsi nella giungla un tavolo e delle sedie alte — e nemmeno i vestiti lunghi fanno parte dell’outfit più adatto al clima. È una scena surreale — ma con uno scopo ben preciso. L’abito bianco e lungo si contrappone alla nudità e al colore nero della pelle dell’etiope. Il tavolo e le sedie, invece, sono un simbolo di civiltà sfoggiato agli abitanti della giungla che mangiano per terra o in piedi.
La foto è entrata a far parte dell’apparato propagandistico che serviva a giustificare la colonizzazione italiana dell’Etiopia. Al pubblico doveva arrivare l’idea che fosse giusto civilizzare i Paesi africani, perché privi delle abitudini necessarie per essere considerati civili. In questo caso, oggetti banali come le sedie diventano “prove di civiltà” per legittimare il predominio e lo sfruttamento dell’Occidente sull’Africa.
Per quanto riguarda l’Oriente, invece, il discorso è di tutt’altro genere. Innanzitutto, il legame dei suoi abitanti con il mondo della natura è meno scontato di quel che si può pensare. In Giappone esiste un’espressione millenaria, mono no aware, che è intraducibile in qualsiasi altra lingua del mondo. Indica la sensibilità dell’uomo verso le cose. Questo tipo di sensibilità si proietta nel modo di vivere, ma anche sulle scelte estetiche: sedersi sul pavimento pone a stretto contatto l’uomo con la terra.
Nel buddhismo zen nato in Cina è fondamentale il ruolo del vuoto. Nel Sutta Nipata si afferma che contemplare il mondo come vacuità porta all’eliminazione della paura verso la morte. Gli antichi giapponesi credevano che gli spazi vuoti delimitati da mura potessero essere scelti dai kami – le divinità della natura – come luogo in cui fermarsi ed entrare. Su questa filosofia è nato il tempio dello shintō: come ogni contenitore vuoto, è pensato per contenere qualcosa, anche di immateriale.
La filosofia del vuoto ha quindi influenzato l’arte, la letteratura, la musica, il design dell’Oriente sin dai tempi antichi. Per quanto riguarda il Giappone, il senso di semplicità è emerso in modo preponderante dopo la guerra civile avvenuta tra il 1435 e il 1490. Durante questo periodo molti libri, sculture, abiti e manufatti sono stati distrutti, stimolando una ricerca estetica indirizzata verso le cose semplici, contro la transitorietà dei beni terreni.
La comparsa dei tavoli e della sedie in Oriente risale all’Ottocento. Tuttavia, entrano a far parte della casa a tutti gli effetti solo in seguito ad alcune innovazioni tecnologiche – come la tv e il computer – perché sarebbe scomodo usufruirne da terra.
Eppure, anche in questo caso, i mobili di matrice occidentale sono stati reinterpretati in modo da renderli bassi. Le differenze riguardano anche il design: uno sgabello risalente agli anni Cinquanta di Riki Watanabe, ad esempio, si ispira alle forme del torii, il portale di accesso al tempio shintoista.
Fondamentale è anche il ruolo della cerimonia del tè, in cui tutt’oggi è tassativo stare chinati per terra. Addirittura, la porta di accesso alla stanza riservata a questo rito è volutamente bassa: impone a chi entra di inchinarsi sin dall’inizio. Nella cultura giapponese il tè è parte integrante dello zen — la sua preparazione richiede un atto meditativo. La stanza in cui avviene la cerimonia è lo spazio più vuoto della casa, secondo un’estetica che prende il nome di wabi-sabi, due termini che insieme indicano la bellezza delle cose semplici, austere, povere, dismesse e logorate dal tempo. La semplicità più assoluta della stanza del tè ha uno scopo: non ci deve essere nessun elemento che possa distrarre l’uomo dalla meditazione. Gli spazi pieni sono simboleggiati dalle travi: il resto deve essere vuoto per creare un’alternanza. L’atto di inspirare ed espirare è esso stesso la produzione di pieni (inspirazione) e di vuoti (espirazioni).
In questo contesto è necessario indossare il kimono, ma non per un fatto di comodità nel sedersi, come sosteneva l’antropologo Gordon Hewes. La larghezza di questo abito non è stata pensata per semplificare i movimenti corporei: il primo kimono, anzi, era composto addirittura da dodici strati di stoffa. La larghezza dell’abito produce il vuoto – in questo caso chiamato ma – tra il tessuto e il corpo, creando un forte spazio energetico. Quindi, gli abiti si possono adeguare a uno stile di vita, ma non dipendono necessariamente dalle scelte di postura, o viceversa. Si può dire, tutt’al più, che sono complementari in quanto comunicano il medesimo concetto culturale. Nella contemporaneità, designer giapponesi come Issey Miyake e Rei Kawakubo hanno prodotto abiti in stile occidentale volutamente larghi che si ispirano al kimono. Eppure non ce ne sarebbe bisogno: ora si possono sedere sulle sedie. Ma il ma è un concetto troppo radicato nella cività giapponese perché qualsiasi abitudine occidentale possa mai estirparlo.
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