Le assistenti domestiche e la schiavitù moderna
In un contesto come questo il confine tra lavoro e ingerenze nella vita personale si fa labile a tal punto da portare i ricercatori a classificare il settore come “proletariato emozionale”.
I ricercatori hanno classificato il settore delle assistenti domestiche come “proletariato emozionale”, un ambito in cui è sempre più difficile separare lavoro ed emozioni — come dimostra l’ultimo caso di suicidio in Kuwait.
Le autorità del Kuwait stanno investigando sul caso di una datrice di lavoro accusata di mancato soccorso che avrebbe filmato senza far nulla l’assistente domestica mentre cadeva dalla finestra del settimo piano. La ragazza aveva tentato il suicidio, ma colta da un momento di lucidità si era aggrappata disperatamente con una mano al cornicione pregando la donna di aiutarla: “afferrami, afferrami.” In risposta ha avuto soltanto un telefonino puntato a filmarla ed un annoiato “oh pazza, torna qui”, finché le dita non le sono scivolate dal cornicione ed è precipitata. La ragazza è sopravvissuta e attualmente si trova ricoverata al Mubarak Hospital.
La datrice di lavoro è stata invece detenuta dalla polizia che cerca di fare chiarezza, spinta dalla fame di giustizia collettiva. Il giornale locale al-Seyassah riferisce infatti che in Kuwait si stia esprimendo pubblicamente un grande sdegno attraverso i social network, dove la datrice di lavoro aveva pubblicato l’impressionante filmato.
La Kuwait Society for Human Rights si è da subito mobilitata chiedendo giustizia e sottolineando la situazione nel Paese: in Kuwait si stima la presenza di più di 600.000 assistenti domestiche, la maggioranza delle quali provengono da Asia e Africa. Anche Human Rights Watch riferisce che due terzi della popolazione del ricco Paese petrolifero sia composta da migranti impiegate nel settore domestico e assistenziale. Molte di queste donne subiscono abusi, maltrattamenti, sfruttamenti e mancati pagamenti. Centinaia scappano da datori di lavoro da cui subiscono abusi, e perciò il governo e le rispettive ambasciate straniere hanno organizzato dei meccanismi di protezione.
Nonostante in Kuwait nel 2015 sia stata approvata una legge che riconosce vari diritti sindacali per le assistenti domestiche, questo settore rimane tipicamente il meno soggetto a controlli e la protezione si rivela quindi sempre debole e inefficace se comparata ad altri ambiti professionali.
Parallelamente all’attuale mobilitazione per i diritti delle assistenti domestiche ― che segue l’onda del clamore mediatico ― vive la realtà che sta dietro alle quinte di avvenimenti eclatanti come questo. Una realtà in cui i soprusi vengono socialmente accettati e le assistenti domestiche sono sempre più sfruttate, umiliate e sottomesse: non si tratta di un rapporto lavorativo, ma di modern slavery.
Il fatto che la ragazza stesse tentando il suicidio non è solo un segno della sua instabilità emotiva: diventa necessariamente indicatore delle condizioni lavorative, perché nel settore assistenziale il lavoro fagocita la vita privata ed è impossibile scindere un ambito dall’altro. Tra le figure di assistenti domestiche più comuni vi è infatti quella delle colf fisse, coresidenti con la famiglia a cui prestano servizio che non di rado offre loro l’alloggio come pagamento, mezzo di regolarizzazione per ottenere il permesso di soggiorno o ancora di protezione nel caso di migranti prive dei documenti richiesti dalle autorità. La convivenza permanente con i datori di lavoro si rivela un fattore predisponente a ingerenze nella vita personale della lavoratrice, alla privazione di momenti di pausa, e nel peggiore dei casi a maltrattamenti e abusi.
Riportando un caso di cronaca di questo tipo non sarebbe di primaria importanza specificare la provenienza della vittima e sarebbe invece più appropriato chiamarla col proprio nome, ma il nome della ragazza viene tralasciato, a differenza delle sue origini: etiopi.
La provenienza delle domestiche ha un’importanza cruciale nel determinare la loro assunzione ed il trattamento che avranno: la ragazza è parte delle minoranze etniche a cui viene maggiormente riservato il ruolo di domestica nel Golfo Persico e tra le quali si riscontrano situazioni di abuso. È stato rilevato che nella percezione dei Paesi economicamente sviluppati esista l’idea di una “specializzazione etnica” che tende a segregare le donne con determinate origini in alcuni ambiti professionali: è il caso ad esempio delle filippine in Italia, a proposito delle quali non è raro sentire stereotipi quali “hanno un’attitudine naturale alla cura,” mentre al contrario spesso si tratta di donne che devono imparare da zero quel mestiere.
Nella stessa area del Golfo Persico anche l’Arabia Saudita si è rivelata altrettanto allarmante sul piano degli abusi, ma tra i casi più preoccupanti in Oriente vi è la situazione indiana, accentuata dal sistema delle caste che legittimano culturalmente la subordinazione. Anche le recenti stime fatte ad Hong Kong corroborano l’idea che quello degli abusi sulle assistenti domiciliari sia un problema globale.
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Osservando la situazione negli Usa risulta lampante come in occidente l’occupazione delle domestiche non sia affatto alla pari di altri contesti lavorativi tutelati: si tratta di un welfare parallelo a quello fornito dallo Stato, ma nella maggior parte dei casi invisibile e per questo abusato e sottopagato. In una ricerca condotta in Italia emerge che la maggioranza delle donne impiegate nel settore siano migranti e che l’occupazione più frequente sia quella di “badanti” per soggetti anziani o non autosufficienti.
L’utilizzo del termine riduttivo “badante” è il riflesso sul piano linguistico di una percezione penalizzante delle assistenti domestiche, non di rado sono stati raccolti commenti quali “non fanno altro che il lavoro di una madre di casa,” “devono solo dare un’occhiata,” “badare.”
Considerando la carica del lavoro che spesso porta a forti ripercussioni sul piano psicologico ― soprattutto per coloro costrette a convivere isolate con persone malate ― la svalutazione nei confronti delle assistenti domestiche è inaccettabile.
Il problema principale è che ― anche qualora non ci fossero casi manifesti di sfruttamento ― ciò che dovrebbe essere un rapporto lavorativo spesso esula dallo stretto ambito di prestazioni e pagamenti, e richiede invece una partecipazione emotiva forzata da parte della lavoratrice che si trova costretta ad essere di compagnia, una persona di casa, ad esternare buonumore e a interagire in maniera simpatetica con la famiglia servita, per essere considerata efficiente nel suo lavoro di assistenza.
In un contesto come questo il confine tra lavoro e ingerenze nella vita personale si fa labile a tal punto da portare i ricercatori a classificare il settore come “proletariato emozionale”: un campo in cui viene richiesto un coinvolgimento olistico dell’intera personalità della lavoratrice e che sfocia pericolosamente nell’alienazione di sé. Per alcuni si tratta infatti della forma di sfruttamento più sottile ed insidiosa: il datore di lavoro ha un ruolo talmente presente ed opprimente nella vita della domestica che ne influenza l’autocoscienza che ha di sé, con ripercussioni psicologiche immaginabili.
Nel report condotto dall’ILO sulle lavoratrici domestiche migranti se ne stimano 11.5 milioni nel mondo ― anche se essendo un settore difficilmente osservabile è più realistico supporre che sia un’approssimazione per difetto. Vi è inoltre una richiesta sempre più in crescita di lavoro assistenziale nei Paesi sviluppati. Tra le cause di questo fenomeno c’è chi parla di post-femminismo: le donne occidentali emancipate e impegnate nel mercato del lavoro hanno bisogno di scaricare gli impegni domestici ad altre donne provenienti da paesi più poveri, perché la distribuzione con la controparte maschile è ancora inapplicabile.
C’è anche da considerare che è stata l’offerta da parte delle migranti di lavoro a basso costo ad attrarre la domanda, estendendo ciò che prima era un lusso anche alle classi medie e basse. Il capitalismo maturo è basato sul lavoro extradomestico dell’intero nucleo familiare e ha bisogno quindi di reggersi su un rapporto di dipendenza da una parte di popolazione subordinata.
Il ruolo delle istituzioni risulta quindi nevralgico nel controllare, regolare e favorire l’applicazione dei diritti promulgati internazionalmente in questo settore. Mentre nella narrazione politica e nella volontà popolare i migranti come macrocategoria sono in genere sempre più rifiutati esiste paradossalmente il settore delle assistenti domestiche che è accettato e addirittura richiesto, considerato meno minaccioso e tacitamente tollerato. Finché le iniziative a livello locale non saranno una presa in considerazione consistente e pragmatica del fenomeno le assistenti domestiche rimarranno un lavoro nascosto nell’ombra e per questo abusato in quanto difficilmente tracciabile.
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