Diaframma — A Polaroid for a refugee Intervista a Giovanna Del Sarto
Abbiamo parlato con Giovanna Del Sarto del suo progetto A Polaroid for a Refugee, che documenta la vita in alcuni campi profughi dell’area balcanica.
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Giovanna Del Sarto e del suo progetto a Polaroid for a refugee, che documenta la vita in alcuni campi profughi dell’area balcanica.
Giovanna Del Sarto è una fotografa italia specializzata in fotografia documentaria; vive e lavora a Londra da diversi anni. I suoi lavoro sono stati pubblicati, su Repubblica, l’Espresso, ll Sole24ore, National Geocgraphic Italy, Usbek&Rica, per citarne alcuni. Ha ricevuto incarichi da NHS, Amnesty International U.K. e Traces London. Il suo progetto a lungo termine, Oltre la Patria, è stato pubblicato come e-book da Terrelibere.
Parlando di un lavoro sui rifugiati, credo sia bene iniziare dalla collocazione geografica e temporale di queste fotografie.
Le fototografie sono state scattate in un arco temporale che va dall’ottobre del 2015 ad aprile 2016; in questo periodo ho scattato le fotografie di quella che considero la prima parte del lavoro. Il primo campo in cui sono stata è quello di Presevo in Serbia, che si trova al confine con la Macedonia, poi sono andata due volte sull’isola di Lesbo; qui, ho fatto inizialmente tappa a sud, nei campi di Moria e Mitilini, la volta successiva verso nord a Molyvos. In seguito sono stata ad Atene, nelle zone centrali della città e al porto, per poi spostarmi verso nord, al confine tra Grecia e Macedonia, al campo di Idomeni. Ultima tappa, al momento, l’isola di Chios, dove sono stata l’aprile scorso. Dal prossimo mese dovrei ripartire, questa volta in direzione Belgrado, per proseguire il lavoro.
Come hai scelti i luoghi in cui ti spostavi?
Per tutto il periodo ho seguito la refugee volunteer map
,una mappa che oltre a indicare il numero dei campi per i rifugiati e la loro collocazione geografica, dà indicazioni sullo stato di maggiore o minore emergenza, segnala le priorità e le associazioni coinvolte. Programmavo le mie visite in corrispondenza dei giorni in cui sapevo di essere libera dal lavoro, semplicemente consultando la mappa con qualche giorno di anticipo, per poi muovermi e raggiungere le mie destinazioni. Questo modus operandi mi ha permesso di seguire le emergenze in corso, diversamente non avrebbe avuto senso andarci. Mi sembra giusto precisare che oltre a essere fotografa sono anche una volontaria, durante i miei viaggi dovevo mettere insieme le due cose. Mi muovevo contattando le associazioni che operavano in loco, soprattutto quelle più piccole, e che generalmente sono anche più snelle a livello organizzativo, così da potermi offrire in loro aiuto.
Perchè questa idea?
È scaturita da un’esigenza personale di verificare in prima persona lo stato delle cose. A Londra, dove io vivo, ma vale anche per tante altre città, si è influenzati dai giornali, dalla tv, perfino dalle chiacchiere con gli amici, che hanno opinioni sempre diverse al riguardo; è per questo che ho voluto fare un’esperienza diretta per capire cosa succede veramente nei campi ptofighi. Oltre alle divergenze di opinione è forte il luogo comune che associa i rifugiati al terrorismo: chiunque può capire che questo non può essere vero, almeno in termini assoluti. Purtroppo, la paura del diverso è onnipresente. Un altro fattore decisivo deriva dalla volontà di essere coinvolta attivamente, portare il mio contributo personale per aiutare queste persone, ed è per questo motivo che ho unito il volontariato durante questi miei viaggi.
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Come mai hai scelto di utilizzare la Polaroid?
Quando stavo programmando il viaggio, la prima idea, che mi annoiava, era quella di portare la fotocamera digitale e muovermi come tantissimi altri fotografi presenti all’interno dei campi. Caso vuole, avevo comprato da poco in un negozio di beneficenza a Edimburgo una Polaroid a 30£, con l’idea che prima o poi mi sarebbe tornata utile.
Quando decisi realmente di partire l’idea mi venne di getto: portare la Polaroid, fare dei ritratti, per poi lasciarne una copia ai rifugiati. Un’idea che nel mio subconscio forse era già matura, ma il primo viaggio mi ha permesso di esprimerla.
Fare foto con il telefono o con la macchina fotografica digitale ti lega ai backup, senza quelli e con un pizzico di sfortuna perdi anni di lavoro in qualche secondo. Con un senso nostalgico ho pensato che chiunque porta con sé delle fotografie, io ne ho dei miei familiari ad esempio. Guardarle o non guardarle non è rilevante, l’importante è averle: per questo ho voluto usare la Polaroid con i rifugiati, lasciando loro il ritratto che scattavo.
La Polaroid mi ha permesso inoltre di essere più sciolta, più rilassata: è una fotografia talmente semplice che l’eventuale errore diviene parte del mezzo e dei suoi limiti, non è criticabile.
I rifugiati si sono sentiti parte delle tue fotografie? Hanno accolto la tua idea?
Non ho esattamente la certezza di come possano aver accolto la mia idea, e se l’abbiano capita a pieno. Dati alla mano sono più le fotografie che ho lasciato di quelle che ho tenuto. Tanti si facevano fotografare ma non mi davano la possibilità di usare la fotografia, pertanto la lasciavo a loro come regalo; per come era pensato il progetto, se non potevo mostrarle, a me non sarebbero servite quelle fotografie. Proponevo loro una fotografia con una formula diversa, forse è questo che li ha coinvolti maggiormente. In questi luoghi non sempre i fotografi sono ben visti.
I ritratti sembrano sospendere il giudizio sui rifugiati e sulla loro condizione.
Ho provato a dare dignità a queste persone, anzi, la dignità se la sono presa. Nel momento in cui accettavano di farsi fotografare erano loro a mettersi in posa, avevano voglia di ricevere una foto bella. Chiunque si metterebbe in posa per una bella foto, perchè loro non avrebbero dovuto farlo? Sono dei ritratti di famiglia, sono molto semplici.
All’interno del progetto non ci sono solo ritratti, anche il paesaggio è presente.
Certo, la fotografa che c’è in me ha avuto la necessità di contestualizzare. Le foto di paesaggio scelte hanno anche un valore simbolico. La prima foto, quella del mare, guardandola attentamente, si vede in lontananza una striscia di terra: in quel caso ero a Lesbo, e la striscia di terra visibile è la Turchia. In questo paesaggio pensavo a coloro che, dopo aver percorso migliaia di chilometri nell’entroterra africano, si ritrovavano a poter vedere con i propri occhi la meta. Immedesimandomi ho pensato che mai mi sarei fermata, potevo finalmente vedere la meta, era lì.
Cosa significa poter ricevere una risposta da parte di chi hai fotografato?
Dietro a ogni fotografia scrivevo il mio indirizzo mail, dicendo alle persone a cui lasciavo le foto di farmi sapere come stavano una volta raggiunta la loro destinazione finale. Ho ricevuto, ad oggi, quattro risposte. Con un ragazzo sono riuscita ad incontrarmi a Lugano, durante una presentazione. Con un’altra signora sono rimasta in contatto tramite whatsapp, la quale mi scriveva utilizzando google translate. Con lei mi sono sentita spesso, fino a quando, dopo avermi raccontato che l’avevano bloccata ad una frontiera non l’ho più sentita. Dopo qualche tempo mi arrivarono messaggi che mostravano le Polaroid che le avevo fatto, immaginando si trattasse di un ritrovamento da parte di estranei, o dalla Polizia. Lei invece si fece riconoscere, raccontandomi che era arrivata in Germania e che stava bene.