Presentato in anteprima europea al Pac di Milano, Saving Banksy affronta il tema della mercificazione della street art da un punto di vista morale. Ma siamo sicuri che si possa salvare la street art?
C’è una scena di Mad Men che sintetizza alla perfezione le dinamiche del mercato dell’arte contemporanea. Il vecchio e navigato Bert Cooper, uno dei boss dell’agenzia pubblicitaria protagonista della serie, spiega cosa lo ha spinto ad acquistare un Rothko, che ora è appeso in bella mostra nel suo ufficio. “La gente compra per realizzare le proprie aspirazioni, è questo il fondamento del nostro business. Ma, detto tra noi, quell’affare dovrebbe valere il doppio entro il prossimo natale.”
Il mercato dell’arte è un mondo chiuso ed elitario: appartenervi significa avere soldi, ma soprattutto poter celebrare la propria raffinatezza. È lo status symbol di chi già è arrivato. I compratori spendono cifre esorbitanti, e hanno bisogno di essere costantemente rassicurati nei propri investimenti. Il valore di un’opera è direttamente proporzionale al brand che rappresenta, come spiega Don Thompson nel saggio The $12 Million Stuffed Shark: The Curious Economics of Contemporary Art. Diventare un brand è l’obiettivo di molti, e per riuscirci bisogna essere ben più furbi dei cosiddetti delusional artists. Un’edificante parabola di auto-brandizzazione è quella di Andy Warhol, orchestrata con maestria, coerenza e consapevolezza.
Ma cosa succede quando un’artista diventa un brand suo malgrado?
La mercificazione della street art è uno dei temi principali del documentario Saving Banksy, presentato domenica scorsa in anteprima europea al Pac di Milano. Arriva in conclusione di una settimana di dibattiti e workshop sulla street art, a dieci anni dalla mostra Street Art/Sweet Art, inaugurata al Pac nel 2007. La difficoltà di inserire questo movimento in un’ottica museale, privata o pubblica che sia, è ancora presente e irrisolta. Basti pensare al gesto eclatante di Blu a Bologna il marzo scorso. La mostra del 2007 è senza dubbio un precedente eccezionale, una sgarbiata davvero ben riuscita. Il motivo del successo è che vi parteciparono attivamente molti artisti del panorama italiano, milanese e bolognese in primis. Ora il clima è un po’ cambiato, e si parla di rimuovere il murales di Blu ed Ericalicane che copre la facciata del Pac: se volete seguire la vicenda e la protesta dei “soliti facinorosi,” è tutto spiegato su #occupypac.
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Saving Banksy inquadra il problema della mercificazione della street art facendone una questione morale. “Sborsare centinaia di migliaia di dollari per un dipinto che è nato per stare all’aperto, e il cui scopo è denunciare l’avidità del capitalismo, dà un significato tutto nuovo alla parola ‘contraddizione’”, così commenta in un’intervista il collezionista e produttore del documentario Brian Greif. I murales vengono sradicati dal loro habitat naturale, i muri delle città. Ci sono mercanti d’arte, galleristi come Stephan Keszler, che sfruttano a proprio vantaggio l’ethos sovversivo degli street artist. I murales vengono rimossi e venduti al miglior offerente, il tutto senza il consenso dell’artista, che non può far leva sulla proprietà di un’opera prodotta illegalmente. Quando Kissing Coppers viene venduto a 477 mila dollari, è un po’ come assistere alla decapitazione di Luther-Blisset.
Un altro problema è la miopia delle amministrazioni locali, troppo spesso impegnate a cancellare murales e graffiti, in nome del decoro e della legalità. Una specie di movimento delle spugnette, che però cancellerebbe un Caravaggio se eseguito senza rispettare le normative vigenti. Lo spunto per il documentario arriva proprio da uno di questi episodi. Quando Banksy passò da San Francisco, nell’aprile 2010, i graffiti erano proibiti da una legislazione molto severa. La linea ufficiale era di ricoprire tutto, Banksy o non Banksy.
Brian Greif si mise in testa di salvare almeno l’Haight Street Rat, e per farlo divenne lui stesso uno sradicatore di murales, ma a fin di bene. Lo scopo di Greif non era di vendere le opere, ma di salvarle da morte certa mettendole in musei aperti al pubblico. La street art è per definizione accessibile a tutti, e così deve rimanere: ma se viene cancellata, chiunque sia il colpevole, gran parte del suo senso viene meno. Lo scopo di Greif è in definitiva combattere l’idea che la street art sia effimera per natura – concetto in realtà condiviso da molti artisti. I murales devono e possono essere preservati, senza che ne risulti contaminata la comunità di artisti che li crea.
Sicuramente guardando il documentario è facile farsi convincere dalle argomentazioni di Greif. Ma nello spazio chiuso di un museo, opere concepite per essere viste da lontano, o di sfuggita, perdono gran parte della loro potenza espressiva. Non poter osservare il modo in cui si adattano all’architettura preesistente, è già di per sé una perdita. Estrapolati dal loro contesto originale, gli stencil di Banksy non sono comunque in salvo. Un altro problema è poi quello di assecondare lo scopo del movimento.
La street art si impone alla vista, elimina la possibilità del pubblico di decidere se osservarla o meno. In questo, è profondamente anti-democratica e sovversiva.
È la forma d’arte più popolare che ci sia, ma allo stesso tempo è difficile da inserire in un’ottica istituzionale. Decidere di andare a visitare un museo è cosa buona e giusta, ma risulta un po’ artificioso se le opere sono concepite per stare altrove. I murales sono un po’come pietre d’inciampo: bisogna sperare di caderci sopra finché ci sono, protestare quando vengono vendute per profitto, facendo di tutto perché resistano il più possibile.