Diaframma — Cosa significa sentirsi prigionieri a CubaIntervista a Carlotta Magliocco
Carlotta Magliocco, 23 anni, è una fotografa freelance che attualmente vive e lavora tra Roma e Palermo. Laureata all’Istituto Europeo di Design, ha deciso di intraprendere la carriera da fotogiornalista. Questa settimana ci racconta Cuba.
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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana, Carlotta Magliocco ci racconta perché gli abitanti di Cuba si sentano sospesi e imprigionati nella loro meravigliosa isola.
Carlotta Magliocco, 23 anni, è una fotografa freelance che attualmente vive e lavora tra Roma e Palermo. Laureata all’Istituto Europeo di Design, ha deciso di intraprendere la carriera da fotogiornalista, realizzando progetti sul sociale, in Italia come all’estero, e pubblicando reportage fotografici su giornali online e riviste di settore. Vede nella fotografia un potente mezzo di comunicazione, in grado di sensibilizzare, attraverso la bellezza della forma, il valore dei contenuti.
Ci racconti i tuoi esordi?
Dopo gli studi classici a Palermo, mia terra d’origine, mi sono trasferita a Roma dove mi sono diplomata. Poi ho frequentato il corso triennale di fotografia dell’Istituto Europeo di Design (IED) e, terminati gli studi, ho cominciato a concentrarmi unicamente su ciò che mi interessava, ovvero raccontare storie sul sociale, proponendo i miei reportage ai giornali tramite email o agguati nelle diverse sedi. Una stalker.
Il corso allo IED è stato propedeutico alla tua carriera di fotoreporter?
Credo che tutto sia propedeutico a crearci professionalmente e come persone. Per capire cosa vuoi fare a volte ti devi scontrare con ciò che senti meno tuo e in questo lo IED mi ha aiutata. Nonostante la maggior parte dei professori sia davvero in gamba e sia riuscita a farmi appassionare sempre di più al genere “fotografia documentaria,” lo IED ha uno stampo molto più commerciale. Privilegia un tipo di fotografia diverso: lavori in studio, still-life, moda, ritratto. Ti chiederai perché l’ho scelto allora. In Italia è una delle poche scuole, se non l’unica, dove il corso triennale di fotografia è equiparato a una laurea canonica, quindi è un investimento intelligente per chi vuole fare della fotografia il proprio mestiere. Se ci interessa invece più il contenuto che la forma, la scatola chiusa IED non è stata la scelta migliore che potessi fare. È stata valida sicuramente nell’avermi fatto capire di che tipo di fotografia mi volessi occupare.
Raccontaci della tua tesi, sei riuscita a fare comunque tuo il lavoro?
Sì, posso dire che il lavoro di tesi è stato il mio primo vero approccio al fotogiornalismo, e come tale ha tante pecche. All’interno del tema istituzionale dato dallo IED a ciascun laureando, ovvero l’alimentazione, io ho deciso di approfondire quest’ultima in relazione alla religione musulmana. Lo spunto è nato a Parigi, il caso ha voluto che la mia permanenza in città coincidesse con i giorni in cui si sono consumati gli attentati alla sede di Charlie Hebdo, così ho deciso di seguire le reazioni dei parigini, nei giorni seguenti fino alla grande manifestazione di Place de la République dell’11 gennaio. Questo lavoro, pubblicato poi su The Post Internazionale, mi ha permesso di cominciare a entrare nelle dinamiche del mondo islamico e a voler capire più a fondo questa religione. Così, tornata a Roma, e dopo circa due mesi di studio, è cominciata la parte pratica, sul campo. Ho iniziato a frequentare i luoghi, la Grande Moschea di Roma in primis, e i tantissimi altri luoghi di culto sparsi per la città.
Come è stato sviluppato il lavoro?
Il lavoro non si sarebbe potuto sviluppare o comunque avrebbe avuto uno stampo diverso, se un uomo, incontrato un venerdì davanti la Grande Moschea, non mi avesse offerto il suo tempo per capire meglio chi fossi e cosa volessi. Capì subito che non ero lì per fede ma per conoscerla e studiarla meglio. Nei mesi successivi mi aiutò tantissimo, mi riempì di libri e mi accompagnò in quasi tutte le tappe successive, dai mercati alle case, dalle moschee ai mattatatoi di carne halal. Oggi continuiamo a sentirci, siamo ottimi amici. Lui è siriano, è ha una storia bellissima alle spalle, sto cercando il modo di raccontarla.
Parlami di Cuba, il lavoro che proponiamo su Diaframma, del racconto di questa prigione, come l’hai descritta a parole.
Cuba è stato il primo viaggio intercontinentale subito dopo la laurea. Fotograficamente ho scelto un approccio piuttosto libero, senza costrizioni o preconcetti. Diciamo che a Cuba è prevalsa la curiosità di conoscere un paese e la sua cultura più che la volontà di tirar fuori un progetto. In questo è stata proprio Cuba a stupirmi, a farmi trovare comunque un mio filo conduttore. Quando lavori su un progetto dividi il lavoro in fasi: quella appunto progettuale, in cui cerchi di conoscere il più possibile del soggetto e quella fotografica, in cui abbandoni la testa e impari a scattare di pancia, stimolato dal momento. Questo almeno è l’approccio che mi ripropongo di avere anche se non è sempre facile. A volte le due sfere si mischiano troppo e le fotografie lo dimostrano. Bisogna stare molto attenti a non vedere unicamente ciò che ci aspettiamo di vedere, a non modificare la realtà per comodità o per sicurezza di noi stessi — trovo che una delle cose più belle sia riuscire a smentirsi. Cuba è nato come viaggio, non come progetto, ma sapevo che sarei entrata in una realtà che di suggestioni me ne avrebbe date parecchie. Quindi posso senz’altro dire che a Cuba ho scattato di pancia, per come mi sentivo e come sentivo ciò che mi stava attorno: chiuso, costretto, incatenato.
Volevo mostrare l’isolamento di una vita in gabbia, l’afa, il sudore, i giorni che si assomigliano ma anche l’apertura della gente nel farsi raccontare.
La mia giornata tipo era camminare tutto il giorno con la macchina fotografica, perdermi in quel labirinto di case colorate, entrarvi, conoscere le storie delle persone, dargli qualcosa se potevo — ovviamente ho anche ballato la salsa, fatto bagni meravigliosi e bevuto tanti tanti mojito.
Mi ha stupito l’approccio delle persone, sia tra cubani che tra cubani e turisti. Sono spesso le storie dei turisti a comporre il puzzle di conoscenze che i cubani hanno sul resto del mondo. I rapporti umani sono vissuti in maniera radicalmente diversa rispetto alla cultura europea. Nessuno si fa i fatti suoi a Cuba, tranne uno.
Cosa intendi?
Un giorno ero a Trinidad, era sera, momento in cui si inizia a ballare e bere per dimenticare i problemi della giornata. Stavo parlando da un po’ con dei ragazzi quando ci si avvicina un tipo: ho dedotto fosse un loro amico ma non ha avuto granchè voglia di presentarsi. Era la prima volta che non mi veniva insistentemente chiesto “Di dove sei, che ci fai qua, ce l’hai un ragazzo?.” Si sedette e ordinò da bere, senza dire una parola. Provai a chiacchierare, ma non ne volle sapere: mi disse solo che io non potevo sapere nulla di loro, di come si vivesse a Cuba, di cosa significasse essere imprigionati in quell’isola. Ed eccomi lì, distrutta in un secondo, etichettata come la turista da grande hotel che va a farsi la bella vita, magari si trova pure un marito, lo porta in Italia e se lo sposa. Gli scattai alcune foto, infastidendolo ovviamente, e gli dissi che aveva ragione, che non ne sapevo davvero nulla su cosa significasse essere prigionieri in quell’isola, ma che avrei voluto capirlo, che non ne ero indifferente insomma. Depose l’ascia di guerra, cominciammo a parlare, riuscii a fargli pure una foto in cui rideva come un pazzo e nei giorni successivi mi insegnò a ballare la salsa.
Nel racconto finale questi dialoghi svaniscono, le fotografie ci raccontano effettivamente una sensazione di sospensione e di indeterminazione.
Il dialogo sicuramente è la base di ogni buon reportage: devi conoscere chi hai davanti, i suoi problemi e la sua vita per poterlo raccontare. Ciò però non fa di me la soluzione a questi problemi, io sono solo una lente su di loro, ho unicamente la volontà di raccontare ciò che vedo e ciò che sento, per me stessa in primis e per focalizzare l’attenzione di chi guarda le foto su temi più o meno attuali e più o meno interessanti. La sospensione è stata necessaria — è così che mi sono sentita anche io, prigioniera sospesa di un luogo meraviglioso. Se le fotografie riescono a parlare di questa stasi, di questa sofferenza velata, del carattere forte dei cubani vuol dire che un po’ sono riuscita nel mio intento. Ho tantissima strada da fare, è questo lo stimolo continuo.