Eco—Come si smonta una piattaforma off-shore?
Eco è la nostra newsletter settimanale di energia e ambiente. In questo episodio, istruzioni per smontare una piattaforma petrolifera, e tante altre belle cose.
Benvenuti a Eco
la rassegna stampa settimanale dedicata a energia, ambiente, ecologia e sostenibilità.
In questo episodio, un quiz interattivo per giocare alla politica energetica degli Stati Uniti, un diagramma per scoprire da dove viene l’energia che utilizziamo, ma soprattutto: come si smonta una piattaforma off-shore? Vediamo.
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1. Dalla parte dei policy makers
Curiosi di sapere come ci si senta ad avere tra le mani il potere di cambiare la politica ambientale di un intero paese? Bene, al New York Times hanno pensato di metterci di fronte alle decisioni che Trump e la sua amministrazione dovranno prendere nei prossimi mesi in tema di ambiente, grazie a questo quiz — spoiler: qualunque cosa decidiate, qualcuno andrà su tutte le furie.
2. Come si smonta una piattaforma petrolifera?
Shell — un gigante con ricavi per 272 miliardi di dollari solamente l’anno scorso — si accinge a smantellare quattro enormi piattaforme nel Mare del Nord, da un campo petrolifero chiamato Brent — tra i più grandi della zona e che, tra l’altro, dà il nome ad uno dei due principali benchmark di riferimento per il mercato del petrolio; l’altro è il WTI. Per l’operazione — oltre che a centinaia di persone, tra operai ed ingegneri — ci si servirà della Pioneering Spirit, una gigantesca nave lunga quasi quattrocento metri e costruita appositamente per l’installazione e la rimozione di piattaforme e oleodotti. In realtà non tutti sono favorevoli all’operazione: Sir Ed Davey, ex segretario per l’energia, e Jonathon Porritt, conosciutissimo scrittore e ambientalista inglese, si sono detti contrari alla rimozione delle piattaforme che, a loro dire, una volta dismesse potrebbero diventare un habitat favorevole per la fauna marina. Eppure la legge nella maggior parte dei casi obbliga le compagnie a smantellare le installazioni non più in uso; tanto vale, quindi, godersi lo spettacolo ingegneristico.
Clicca per vedere il video completo.
3. L’EPA ha qualcosa da dire
Gli impiegati dell’EPA (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente degli Stati Uniti) hanno una serie di buoni motivi per sentirsi professionalmente sotto assedio, non da ultimo per l’intenzione dell’amministrazione Trump di voler fortemente ridimensionare il ruolo dell’Agenzia — nella peggiore delle ipotesi si è parlato di abolirla completamente. Sebbene nulla sia certo — una figura chiave come il Segretario di Stato Rex Tillerson, per fare un nome, non parrebbe la bestia nera in tema di ambiente e rinnovabili che molti temevano — lunedì trecento ambientalisti e impiegati dell’EPA hanno protestato per le strade di Chicago, contro l’ormai (quasi) certa nomina di Scott Pruitt ad amministratore dell’Agenzia. Pruitt è stato fortemente criticato per via dei propri legami con l’industria petrolifera, oltre che per i trascorsi non amichevoli verso l’EPA, quando era Procuratore Generale dell’Oklahoma.
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4. Da dove viene l’energia
Se a qualcuno venisse la curiosità di sapere da dove proviene, come è stata ottenuta e per che cosa è stata utilizzata l’energia nel corso degli ultimi trent’anni, be’, all’IEA hanno deciso di farcelo sapere grazie a questo diagramma di Sankey. Mind-blowing.
5. Ancora navi dei veleni
Torna alla ribalta una delle pagine più buie della storia d’Italia: si tratta del caso delle navi dei veleni, mercantili carichi di rifiuti tossici o radioattivi affondati dalle mafie in accordo con i rami deviati delle grandi industrie, per bypassare le costose procedure di smaltimento a norma di legge. A inizio gennaio l’ex agente segreto Aldo Anghessa aveva rivelato ad Avvenire nuovi particolari sui traffici di rifiuti e darmi che dall’Italia partivano verso l’Africa. Pochi giorni fa la commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’onorevole Alessandro Bratti ha ordinato la declassificazione di 61 documenti riservati.
Ma negli anni passati tutti i processi sulle navi dei veleni sono stati archiviati per insufficienza di prove.
Su the Submarine abbiamo mostrato come questo traffico di rifiuti si fosse reincarnato nel nuovo business dello shipbreaking, un fenomeno che viene costantemente documentato dalla ONG Shipbreaking Platform, che proprio qualche giorno fa ha pubblicato il suo rapporto annuale.
6. Il Giappone ha sbagliato i calcoli
Dopo l’incidente nucleare di Fukushima del 2011, il Giappone, pieno di buone speranze, optò per cambiare il proprio energy mix, cominciando a liberalizzare totalmente il mercato dell’energia — per dare un’ordine di grandezza: la sola privatizzazione del settore elettrico vale 140 miliardi. Purtroppo le cose non stanno andando come ci si aspettava, e privatizzazione — come spesso accade — non è stata sinonimo di beneficio per i cittadini (solamente il 3% dei giapponesi ha cambiato fornitore di energia elettrica, e quel 3% è concentrato in due regioni). Il discorso sul nucleare è più spinoso: dopo Fukushima pareva essere una fonte senza gran futuro ma, colpo di scena, a volte ritornano. Tra mille difficoltà, il governo giapponese sta cercando di non rinunciare totalmente a questa fonte, seppur con una serie di problemi legati al tempo di utilizzo dei reattori, stabilito dalla legge a quarant’anni. A rendere la questione ancora più complessa vi è l’attuale enorme quantità di GNL (gas naturale liquefatto) che il Giappone importa dal Qatar — si, di mezzo ci sono quasi ottomila chilometri — e che difficilmente potrà costituire una fonte di approvvigionamento di lungo periodo, visti i costi spropositati.
Eco è a cura di Giovanni Scomparin, Nicolò Florenzio e Tommaso Sansone.
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