La Fondazione di Asimov è il miglior ciclo di fantascienza di tutti i tempi
A 75 anni dall’inizio della sua pubblicazione sulla rivista Astounding, il capolavoro del maestro della fantascienza meriterebbe una notorietà maggiore. Ecco perché.
A 75 anni dall’inizio della sua pubblicazione sulla rivista Astounding, il capolavoro del maestro della fantascienza meriterebbe una notorietà maggiore. Ecco perché.
La Fondazione di Asimov è del tutto priva di azione, del tutto priva di personaggi memorabili e ciononostante è uno dei cicli fantascientifici più belli di tutti i tempi. IL più bello, secondo qualcuno: nel 1966 infatti gli è stato riconosciuto il Premio Hugo dedicato ai cicli fantascientifici, relegando al secondo posto Il Signore degli anelli — la cui appartenenza al genere, peraltro, è questionabile. Eppure oggi tutti, dai quindici ai quarant’anni, hanno visto e letto qualcosa dell’opera tolkieniana, mentre il capolavoro di Asimov gode di una ben minore notorietà, del tutto immeritatamente.
L’idea per la trama, Asimov, l’ha avuta in modo così romanzesco da sembrare finto. Stava seduto nell’ufficio del suo editore — John W. Campbell, il padre della fantascienza. Campbell lo voleva incontrare per farsi raccontare un po’ dei nuovi racconti da pubblicare sulla sua rivista Astounding. Ma il povero Asimov non aveva nulla da dirgli. Era in una fase di blocco dello scrittore piuttosto forte a quanto pare, e — in preda al panico — capì che avrebbe dovuto improvvisare al suo capo qualche balla, lì per lì. Si guardò intorno in cerca di ispirazione finché non notò nell’ufficio una copia Declino e caduta dell’Impero Romano di Edward Gibbon.
E l’idea che ha avuto, in breve, è questa: perché non riscrivere la storia della decadenza dell’Impero ambientandola nel futuro? L’Impero, anziché Romano, facciamo che sia Galattico — e che si trovi in decadenza dopo dodicimila anni di governo sull’Universo.
L’idea piacque molto a Campbell, che aiutò Asimov a sviluppare il passaggio successivo: in questo universo che va a rotoli, un uomo elabora una scienza in grado di predire con certezza matematica il corso della storia, e si accorge che dopo la caduta dell’Impero l’umanità è destinata a trentamila anni di barbarie. È Hari Seldon, il padre della Fondazione. Seldon convince i funzionari imperiali a mandare lui e alcuni suoi uomini in esilio su Terminus, un pianeta sperduto ai margini più ignobili dell’Impero. Da lì, grazie alla guida della psicostoria, i fondazionisti hanno il compito di ridurre il periodo di barbarie da trentamila a mille anni, fondando un nuovo Impero.
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Prima cosa bella, che rende il ciclo speciale e che ha sempre deliziato chi scrive quest’articolo: la Fondazione non è fantascienza eclatante e appariscente.
Non ci sono combattimenti, non ci sono scontri di spade laser o epiche battaglie tra astronavi.
Tutta l’opera, in realtà, potrebbe essere classificata come un lunghissimo saggio di politica — ambientato, però, in un Universo in cui gli uomini viaggiano nello spazio: il che rende tutto più frizzante se oltre alla politica vi stuzzica pure l’idea dello Spazio. La Galassia, la fantascienza, viene fatta intravedere come scenario di sfondo, con naturalezza.
Prendendo in mano qualsiasi libro del ciclo — ma qualsiasi libro di Asimov, a dire il vero — stupisce la quasi totale mancanza di azione. Magari Asimov sta parlando di una guerra, ma la battaglia non ve la descrive. O magari ve la descrive in cinque righe cinque. O se si scomoda a descriverla non gli interessa portare la vostra attenzione alla dinamica della battaglia, bensì sul comportamento di uno dei tanti personaggi, o sulla particolare congiuntura politica che ha reso possibile al Generale X tradire il Governatore Y, fatto al quale in compenso sono dedicate due pagine di discorso diretto scritto in modo magistrale.
Questa è la grande forza dei libri di Asimov: lasciare i colori forti del fantasy su uno sfondo dove ambientare trame che potrebbero calzare benissimo con collocazioni terrestri. Ma questa è anche la loro grande debolezza, soprattutto perché questo approccio alla narrativa rende la Fondazione pazzescamente inadatta alla trasposizione cinematografica. A differenza di molti altri autori di fantascienza, di cui siamo stati abituati a vedere un adattamento dietro l’altro.
L’oblio cinematografico purtroppo è una sorte comune alle opere di Asimov. Nel 2004 è uscito Io, robot, con Will Smith, non un cattivo film — ma certo niente di memorabile. Il regista, Alex Proyas, aveva pescato un po’ dal libro omonimo di Asimov, che in realtà è una raccolta di racconti, e da Abissi d’acciaio, un altro classico asimoviano. Proyas aveva spinto sul lato più “d’azione” dei racconti originali, e così il film era venuto una via di mezzo tra uno Spiderman e La ricerca della felicità ma senza dialoghi interessanti. La Fondazione, per fare breccia nel mondo del cinema, ha dovuto ricorrere a mezzi più sottili, si potrebbe dire: dando l’ispirazione nientemeno che a Star Wars. I due cicli non hanno niente in comune a livello di trama — ma per l’ambientazione George Lucas si è ispirato all’opera di Asimov. Dalle cose più immediate — c’è un impero galattico in entrambe le saghe — fino a elementi meno scontati. Per esempio: il pianeta capitale dell’Impero di Lucas, Coruscant, è ricalcato del tutto su quello capitale dell’Impero di Asimov, Trantor: due mondi coperti da un’unica, sterminata città.
E veniamo alla seconda caratteristica che — dopo le spade laser — ha reso famoso Star Wars, ma che per fortuna è del tutto assente nell’ottica di Asimov: la personalizzazione della Storia. La saga di Lucas non è altro che un dramma familiare sullo sfondo della Galassia. Le azioni degli Skywalker e le loro fortune determinano quelle di tutti gli altri intorno a loro — e muore un sacco di gente.
Il nucleo profondo della Fondazione, invece, è esattamente l’opposto: il ciclo è un tentativo continuo di dimostrare che gli uomini, le individualità più speciali, non possono nulla contro le invincibili leggi storiche o psicostoriche, che alla fine faranno correre il destino dell’umanità secondo binari prestabiliti.
Un approccio materialista, quasi marxista. Leggendo gli ultimi capitoli della Fondazione, scritti trent’anni dopo i primi, si incontra un Asimov che sembra aver maturato addirittura una coscienza egualitaria e ambientalista. In realtà, Asimov, marxista non lo era, come da lui stesso affermato e come si può chiaramente capire da una rapida scorsa ai suoi libri, pieni di vicerè, titoli nobiliari, dispotismo illuminato e — almeno nella fase giovanile — maschilismo tutto spiano, per fortuna moderato col passare degli anni. Si potrebbe dire che, applicando la fantascienza alla politica, abbia creato con la Fondazione una nuova forma di materialismo psico-storico.
Rinunciare a leggere la Fondazione per la mancanza d’azione o di personaggi memorabili, o non ci piace vederci sottrarre dopo trenta pagine un personaggio al quale eravamo affezionati, è come non osservare l’intero dipinto di un campo perché non apprezziamo il modo in cui il pittore ha dipinto un fiore. Se lo guardiamo da vicino quel fiore potrà sembrare sgraziato, e forse lo sarà. Se però ci allontaniamo e ci lasciamo circondare dal quadro fino quasi a entrarci dentro, capiremo che quel fiore è stato fatto in quel modo perché solo così l’insieme dei fiori poteva costituire uno splendido paesaggio.
La Fondazione è questo: un’opera di ampio respiro da gustare poco per volta, lasciandosi trascinare in un Universo così differente e simile dal nostro: l’impresa, illogica ma perfettamente riuscita, è quella di tenerci lontanissimi dal nostro pianeta, eppure con i piedi saldamente piantati sulla sua superficie.