Fuori tempo per leggere o ripassare il libro di Starnone, in ritardo su comunicati e conferenze stampa, arriviamo a teatro ed è subito sipario.
Una forte luce viola, come una lampada di Wood, descrive un interno borghese: la protagonista si presenta, è una moglie e madre, è una donna abbandonata senza un lavoro e con due bambini, che grida il suo rancore in lettere che il marito, seduto in scena, legge in silenzio, gettandole a terra pagina dopo pagina.
È un monologo teso, violento, infinitamente lungo, dove Vanessa Scalera rende una grande prova di attrice. È un monologo, perché il marito – Silvio Orlando, qui anche produttore – non risponderà mai a quelle lettere, non dando neppure prova di averle ricevute o lette.
In qualche modo Lacci inizia solo dopo questo grande prologo. E prende forma in un registro anche diverso, dove il dramma si alterna alla commedia. Dopo quattro anni, il padre di famiglia torna a casa, ricominciando un’altra vita o riprendendo quella di prima, di prima della lunga parentesi.
Ma la situazione costringe il protagonista a mettere le mani sulle vecchie lettere, e a frugare nelle emozioni di un passato non dimenticato.
Silvio Orlando si trova così tra l’intransigenza della moglie e l’apparente complicità del vicino di casa, a cui confessa i peggiori risvolti della propria scelta. Qui sta la parte più fragile, e al contempo più originale del testo. Perché il fedifrago torna a casa, perché dopo aver lasciato la famiglia, lascia anche l’amore della sua vita?
Lacci sta nelle ipotesi, nelle risposte non coerenti, non univoche, che spesso sono proprio quelle della vita reale. E la riduzione teatrale fa una scelta ancora più radicale. Sarà un’ultima scena, un vero e proprio atto finale a dare, se non delle possibili risposte, almeno delle aperture forse ancora più sconcertanti. Il ritmo della pièce resta intenso, e non cala mai una forte tensione narrativa. D’altra parte Starnone è un grande esperto di Raymond Carver. I suoi lacci sembrano – come una gemma grezza – candidati sia al successo di pubblico, che a quello della critica, perché squarciano veli spesso solo sfiorati dalla prosa contemporanea.