Dove vanno a finire le grandi imbarcazioni non più idonee alla navigazione?
Ai tempi della COP21, ci si potrebbe aspettare che i vascelli fabbricati dai cantieri all’avanguardia del mondo industrializzato vengano smantellate in darsene altrettanto sicure e rispettose dell’ambiente.
Invece, per la maggior parte dei casi, non è così. Secondo il rapporto annuale (2015) dell’organizzazione non-profit Shipbreaking Platform, il 73% di tutte le navi destinate alla rottamazione confluisce nel business mondiale dello shipbreaking, ossia lo smontaggio manuale ed ecologicamente insostenibile dei vecchi giganti del mare sui litorali del Sud-est asiatico.
Bangladesh, India, Cina, Pakistan e Turchia sono le cinque nazioni in cui si concentra la quasi totalità (99%) dei casi di shipbreaking di tutto il mondo. Solo l’anno scorso questi paesi hanno ospitato il disassemblaggio di 768 imbarcazioni, tra mercantili e transatlantici, per un totale di oltre 20 milioni di tonnellate di prezioso materiale (principalmente metallo), che viene asportato a mano dalla manodopera locale.
Si tratta di un vero affare, sia per i proprietari delle carrette del mare, sia per gli imprenditori che gestiscono gli spiazzi per lo smembramento — i cosiddetti shipbreaking yards. Infatti, l’armatore vuole disfarsi della barca vendendola al miglior offerente, mentre le compagnie di demolizione vogliono comprarla per impossessarsi dei materiali di cui è costituita, riciclarli e poi rivenderli a prezzo maggiorato.
Video via Danwatch.
Gli arsenali dotati dei mezzi per il corretto smaltimento dei vascelli non riescono a competere con gli elevati prezzi d’acquisto offerti dai padroni dei cimiteri navali. Questi ultimi approfittano della debolezza politica e giuridica del proprio paese per attuare gli smantellamenti senza garantire alcuna tutela nei confronti della manodopera e del territorio.
Eppure, laddove sorge uno shipbreaking yard, la popolazione locale, poverissima, accorre in massa attratta dalle prospettive di un salario, anche irrisorio, in cambio del quale è disposta a sottostare a ritmi di lavoro estenuanti accompagnati da rischi elevatissimi, in totale assenza di protezione fisica e legale. Abbondano infatti gli infortuni sul lavoro, che però vengono costantemente silenziati dai capocantiere tramite violenze e minacce di licenziamento, e solo in seguito ad incidenti eclatanti gli operai trovano il coraggio di denunciare l’accaduto agli ispettori delle NGO e ai giornalisti, ai quali ovviamente l’accesso agli scali è vietato.
#Bangladesh – Horrific accidents: 10 #shipbreaking workers killed/badly injured in 1 month https://t.co/IZLqeeZnrP pic.twitter.com/0idBbGN8wC
— NGO Shipbreaking Platform (@NGOShipbreaking) June 27, 2016
Nel 2006 gli attivisti di Greenpeace, International Federation for Human Rights (FIDH) e Young Power in Social Action (YPSA) sono riusciti a raccogliere le testimonianze di oltre un centinaio di shipbreakers e a pubblicarle in un dossier dal titolo The human cost of breaking ships, dove è riportata un’orribile varietà di modi in cui si può rimanere feriti o uccisi.
Oltre all’acciaio, che costituisce circa il 90% delle vecchie imbarcazioni, esiste almeno un 10% di materiali di vario genere che, una volta separati dalla loro sede, risultano fortemente tossici. I manovali sono così esposti ad amianto, piombo, cromo, policlorobifenili (PCB), microplastiche, schegge di vetro e di vernice, nonché residui di carburante, solventi e acqua di sentina, nella quale si accumulano tracce delle merci trasportate in precedenza. Tutti questi rifiuti vengono poi semplicemente abbandonati all’aria aperta, sul suolo umido e permeabile del litorale, dove i fenomeni atmosferici contribuiscono a disperderli nell’ecosistema e a degradarli.
Quindi le scorie si decompongono e filtrano nel terreno, sul quale molti operai camminano a piedi nudi o quasi. Di conseguenza i manovali si muovono costantemente in un ambiente avvelenato, saturo di sostanze nocive, che ogni giorno provocano infezioni e malattie croniche spesso all’origine dei decessi.
Eppure, l’insalubrità di questi luoghi potrebbe essere drasticamente ridotta se venisse proibita almeno la disdicevole pratica del beaching (spiaggiamento), ossia la demolizione dei vascelli sulla spiaggia nei periodi di bassa marea. Per colpa di questa tecnica, abbondantemente utilizzata nei maggiori shipbreaking yards, tutti i frammenti che si liberano durante le operazioni di taglio finiscono direttamente nel suolo sabbioso.
Secondo Patrizia Hedegger, CEO della NGO Platform, il beaching è una prassi del tutto inaccettabile, pertanto deve essere abbandonata in favore di aree portuali chiuse, provviste di superfici asciutte e impermeabili ed eventualmente dotate di paratoie, in modo da evitare il più possibile che gli inquinanti filtrino nel terreno o siano dispersi in mare aperto.
Where's the dry dock? The ships are still cut in the intertidal zone! Conditions remain unacceptable! @HanneEskjaer https://t.co/9rPup5jggT
— NGO Shipbreaking Platform (@NGOShipbreaking) September 8, 2016
Ma non è tutto, perché ogni tanto i mercantili destinati al macero arrivano nei cimiteri navali con un carico davvero “speciale,” che nessuno vuole, e che viene scoperto solo quando ormai è giunto a destinazione.
È l’immondizia industriale della peggior specie: polveri incombuste, batterie esauste, solventi, olii e idrocarburi di vario genere e – nel peggiore dei casi – scorie nucleari.
Tra il 2007 e il 2016 almeno tre cargo (Blue Lady, Kuito e Horizon Trader) sono state sorprese nel tentativo di trasportare all’interno degli shipbreaking yards materiale tossico e radiattivo.
Queste pratiche ricordano la vicenda delle “navi dei veleni,” imbarcazioni riempite di rifiuti tossici e affondate dalle mafie nei mari Mediterraneo ed Egeo tra gli anni ’60 e ’90 – un business criminale che ha qualcosa in comune con lo shipbreaking. Si tratta del passaggio di proprietà e del cambio di bandiera (convenience flags) effettuati poco prima dello smantellamento, un trucco che serve agli armatori per lavarsi le mani da ciò che accadrà alla nave durante il suo ultimo viaggio.
Nello specifico, il mezzo viene venduto dal proprietario ai cosiddetti cash-buyers, che poi rivendono il vascello ai signori dello shipbreaking. In questo modo, qualunque cosa accada ai mercantili, gli armatori non sono perseguibili penalmente, e così tutta l’infamia ricade su piccole società intermediarie (praticamente irrintracciabili) e sui dirigenti dei grandi arsenali del terzo mondo, che non saranno mai sanzionati in quanto taciti finanziatori del governo locale.
Per rompere questo circolo vizioso, le organizzazioni ambientaliste organizzano campagne di naming & shaming e rilasciano dossier attraverso i quali associano pubblicamente ogni ente alle proprie responsabilità. Così si scopre che l’Italia, avendo commissionato lo shipbreaking di oltre 90 imbarcazioni (circa 4 navi all’anno), è il quinto stato più scorretto d’Europa, subito dopo Cipro (5 navi/anno); mentre sul podio troviamo il Regno Unito (10 navi/anno), la Germania (23 navi/anno) e prima tra tutte la Grecia, che ogni anno fa rottamare nel sud del mondo l’esorbitante cifra di 76 navi.
Invece fra i peggiori armatori del mondo troviamo i colossi Idan Ofer’s Companies (israeliano) e Mitsui O.S.K. Lines (giapponese) seguiti da diverse società greche, che presto potrebbero essere affiancati da un altro gigante del mare particolarmente intransigente: Maersk.
Secondo Patricia Heddeger, la nota industria di container danese ha il vizio di inviare i vascelli alla demolizione senza prima averli ripuliti dai rifiuti tossici e radioattivi, e inoltre non ricicla adeguatamente i materiali ricavati, non investe a sufficienza nel rinnovamento delle darsene, non tutela i dipendenti e ricorre insistentemente allo spiaggiamento delle imbarcazioni.
D’altro canto bisogna dire che il beaching è la soluzione più utilizzata in quasi tutti i paesi; fa eccezione la Cina, che sta lentamente ammodernando le proprie infrastrutture pur rimanendo carente nel trattamento delle scorie e nel monitoraggio ambientale.
Le cose non vanno meglio ad Aliaga (Turchia), dove generalmente vengono smantellate barche di taglia inferiore rispetto ad altri breaking yards; qui le NGO denunciano un alto tasso di incidenti sul lavoro e preoccupanti condizioni igieniche.
Contaminated tanker ends up on the beach in Bangladesh – @Maersk involved in illegal toxic waste trafficking https://t.co/YQJBSpMNTj pic.twitter.com/bPn1Thi2BU
— NGO Shipbreaking Platform (@NGOShipbreaking) October 27, 2016
Ma il peggio si trova ad Alang (India), Chittagong (Bangladesh) e Gadani (Pakistan), in cui gli spiazzi dello shipbreaking assomigliano più a dei campi di concentramento.
Ad Alang le autorità si rifiutano di accogliere gli ispettori sanitari e di rilasciare dati sugli incidenti sul lavoro, mentre i rifiuti nocivi, come amianto e PCB, vengono comunemente riciclati e rivenduti.
A Chittagong si registra un elevatissimo tasso di incidenti mortali, gli operai affrontano dei turni lunghissimi, lavorano senza contratto e molti di loro sono minorenni. Le barche giungono nel porto regolarmente provviste di documentazione contraffatta, mentre a bordo è presente ogni genere di immondizia che poi non viene trattata correttamente.
Lo shipbreaking yard più pericoloso del mondo è senza dubbio Gadani, dove proprio pochi giorni fa un’esplosione ha ucciso 17 persone e ferite 58. Gadani non può neanche essere definito un cantiere, poichè quasi tutte le attività vengono eseguite direttamente sulla sabbia. E siccome non esiste alcuna infrastruttura adibita al trattamento dei rifiuti, questi vengono scaricati sul litorale, dove poi infiltrano nel terreno sabbioso e avvelenano l’intera popolazione.
Molti operai vivono in piccoli capanni costruiti in mezzo alle imbarcazioni arenate, mentre altri si accampano all’interno dei grandi scafi, pericolanti e arrugginiti: è un inferno tossico, in cui la gente vive per lavorare e per ammalarsi.
Alla luce di questi fatti si capisce perché nel suo rapporto del 2015 la NGO Platform abbia definito lo shipbreaking come “il lavoro più pericoloso del mondo,” sollecitando i proprietari a mettere in regola i cantieri al più presto. Tuttavia, è evidente che l’insostenibilità di questo settore sia originata da una domanda di smaltimento priva di coscienza ambientale — per risolvere il problema alla radice è necessario effettuare campagne di sensibilizzazione nei confronti di chi vende le carrette del mare senza curarsi del loro futuro.
Qualcosa sta già cambiando: ad esempio la notizia del cattivo rating nautico ricevuto dall’Italia ha spinto Legambiente ad unirsi alla causa di Platform, mentre qualche giornale del nostro paese ha iniziato a rivolgere attenzione al problema.
D’altro canto anche la darsena più retrograda può diventare sostenibile. Solo qualche giorno fa la European Economic and Social Committee (EESC) ha pubblicato uno studio che evidenzia come un investimento minimo da parte degli armatori porti dei significativi miglioramenti nel riciclo delle navi. Ma, come vale per tutti i problemi ambientali, bisogna intervenire con decisione e alla svelta, perché quanto più i veleni penetrano nell’ecosistema, tanto più faticoso diventa fermare la catastrofe.