A 30 chilometri da Atene, nella periferia sud, è stato costruito nel 2001 il nuovo villaggio olimpico della capitale.
Dodici anni fa la Grecia esultava in quei campi: l’Hellinikon Stadium è stato il campo da hockey durante le Olimpiadi estive del 2004 ad Atene.
Oggi su quello stesso campo corrono bambini scalzi e questa volta non ci sono vinti o vincitori, ma vittime e carnefici.
All’indomani dei giochi, svanita la gloria, è arrivata la crisi e le periferie ateniesi si sono spopolate. Oggi il paesaggio attorno è spettrale: concessionari abbandonati, hotel chiusi e palazzi incompiuti.
Il complesso olimpico, accanto all’ex aeroporto abbandonato, è l’emblema della crisi economica e migratoria in cui si trovail Paese: più di sei miliardi di euro di complesso olimpico ora in rovina — ricordi abbandonati dell’ultima epoca d’oro della Grecia.
Da qui sono passati più di tremila profughi durante l’estate e oggi a vivere nei campi sorti all’interno del centro olimpico sono 600.
Purtroppo siamo riusciti a entrare solamente nell’ingresso principale, non oltre. “La stampa non può entrare, provate a mandare una mail al Ministero!” ci dice una volontaria.
Ma al di fuori della struttura ci è permesso stare — quindi iniziamo a chiedere informazioni a chi allo stadio olimpico ci vive.
Ci sono dei ragazzi seduti su un divano in un angolo poco fuori dal centro di accoglienza. Vengono da Kabul. Uno di loro ci racconta il suo viaggio dall’Afghanistan: a piedi, poi in macchina ha attraversato Afghanistan, Pakistan, Iran e Turchia poi in barca è arrivato a Chios e da lì ad Atene — in due mesi è arrivato in Grecia. Ora è da otto mesi nel campo di Elleniko e ci dice che il campo è gestito dall’UNHCR e da un gruppo di volontari olandesi — Danish Refugees Council — che forniscono due pasti al giorno, uno alle 14 e uno alle 19.
“In questi giorni mi sono ammalato perché le docce sono fredde.”
Ci racconta della sua vita a Kabul: studiava economia e ora sogna di finire gli studi una volta raggiunti i suoi parenti in Germania. Una storia comune a molti profughi.
Dietro di lui un signore anziano ci dice, con le poche parole di inglese che conosce,che sono scappati dall’Afghanistan a causa dei talebani e di Daesh, che hanno distrutto le loro case.
Il perimetro della struttura è composto da una rete sfaldata, su cui sono appesi i panni stesi: le maniche sembrano abbracciare il complesso architettonico.
Nell’isolato vicino c’è il quartiere Moschato, un vero e proprio paese. Lì si trova un piccolo albergo nascosto tra le case a schiera. È una delle tante strutture che ad Atene fanno accoglienza ed è gestito dal governo e dall’UNHCR. Ma anche qui i volontari ci dicono che non possono né farci entrare né darci informazioni. Uscendo parliamo con un ragazzo.
Riusciamo a chiedergli poche informazioni sull’albergo: ospita 60 persone di cui 15 bambini, tutte famiglie. Poco dopo ci fa segno di andarcene perché il volontario a cui avevamo chiesto informazioni si stava dirigendo verso di noi.
Secondo i dati dell’UNHCR, in Europa sono sbarcate tra gennaio e ottobre 2016 più di 333 mila persone — 159 mila in Italia e 169 mila in Grecia, quasi 5 mila in Spagna, mentre i morti e i dispersi sono quasi 4 mila.
Ad Atene sono arrivate più di 10 mila persone sparse tra le case gestite dal governo, quelle occupate e i campi poco fuori dalla città dove l’integrità dell’Europa è minacciata.
Molte famiglie non credono più alle promesse e l’attesa sta diventando deleteria: per quanto possano essere assistiti all’interno dei campi gran parte di loro sta decidendo di tornare indietro.
Presto inizieranno a riprendere contatti con gli smuggler che li hanno portati in Grecia e li pagheranno per ritraghettarli verso l’inferno, perché quello che hanno raggiunto non è di certo il paradiso, ma un limbo di eterna attesa.