Non sono mancati negli ultimi mesi articoli che trattassero di sharing economy, e, in una narrazione tutto sommato positiva, è capitato spesso che il celebrato fenomeno dell’economia della condivisione mostrasse di essere più complesso di quanto non fosse apparso inizialmente: dietro, infatti, all’uso di tecnologie innovative e ai benefici per i consumatori, si celerebbero spesso modalità di pagamento che a molti hanno ricordato la condizione del lavoro dei primi decenni del Novecento. Ma è sensato un paragone? Cerchiamo di analizzare le analogie tra i due sistemi.
Per dare un’idea della velocità di sviluppo del fenomeno, partiamo dal precisare che sarebbe più corretto parlare di access economy, dal momento che il focus del consumatore non sta tanto nel beneficio sociale che scaturisce dallo scambio gratuito di un bene/servizio, quanto nella possibilità di usufruirne in tempi brevi e a costi contenuti. Impressionanti le cifre: il solo mercato statunitense conta 22,4 milioni di consumatori per un giro d’affari di 57,6 miliardi di dollari. Come mai richiamarsi a Taylor, allora?
L’Organizzazione scientifica del lavoro (OLS) affonda le sue radici nella crisi del capitalismo della seconda metà dell’Ottocento, alla fine della quale si affermò l’impresa industriale in senso moderno. La dimensione delle imprese cresceva vertiginosamente: se la Banca Medici del 1470 impiegava cinquantasette persone e nel 1830 la fabbrica d’armi Springfield ne occupava duecentocinquanta, nel 1925 la General Motors annoverava più di ottantatremila addetti (fonte: Chandler, 1977). È in questo periodo che venne a definirsi la figura del manager, una novità nella storia della libera impresa.
A non essere cambiata era la gestione della manodopera, affidata a capi intermedi, i quali negoziavano gli obiettivi con la produzione e si occupavano delle retribuzioni. In questo contesto si sviluppò il lavoro di Taylor, che cercava di risolvere due problemi: arginare il soldiering, il fenomeno per il quale i lavoratori mantenevano intenzionalmente basso il ritmo produttivo in modo da non essere licenziati o costretti a lavorare per tempi ridotti; migliorare l’efficienza complessiva dell’organizzazione.
Nel 1895, Taylor propose l’introduzione di un cottimo a tariffa differenziale. L’idea era quella di procedere alla definizione di una quantità standard per giornata, riconoscendo una tariffa unitaria più elevata a chi fosse stato in grado di raggiungerla. La paga sarebbe stata corrisposta sulla base del merito individuale, senza passare dalle iniquità distributive dei capi intermedi. Per fare un esempio, fissando la produzione standard a dieci pezzi, pagheremo il nostro lavoratore 4€/unità se avrà raggiunto la quota e solo 2,50€/unità altrimenti.
L’idea della retribuzione differenziale seguiva i principi che Taylor aveva raccolto, nel 1911, in Principles of Scientific Management. Si prescriveva lo studio “scientifico” dei metodi di lavorazione: il processo doveva essere analizzato nel dettaglio. Era fondamentale stabilire, sulla base di dati e di misurazioni, quali fossero le reali possibilità, quali gli sprechi correnti e quali le necessità di ogni fase produttiva. Da qua, bisognava passare alla selezione e all’addestramento della manodopera, tenendo a mente il cosiddetto principio de “l’uomo giusto al posto giusto”. Iterando questa procedura ed espandendola si sarebbe raggiunta la one-best way, il modo di produzione più efficiente.
Nasceva il grande sogno razionale che sarebbe diventato realtà con le fabbriche Ford: ingegnerizzare l’industrializzazione di un prodotto tenendo sotto stretto controllo l’efficienza produttiva e organizzando sapientemente ogni istante del lavoro.
Ragionamenti non troppo distanti stanno spingendo alcune aziende della sharing economy a tentare la via del cottimo. Immaginiamo di dover organizzare un’azienda che si occupa di consegna a domicilio di cibo. I nostri clienti vogliono spendere la stessa cifra che spenderebbero se mangiassero direttamente nel ristorante in questione, vogliono aspettare meno di trenta minuti e richiedono la maggiore scelta possibile.
Al momento dell’acquisto comunicano la loro posizione, che ipotizziamo non possa essere troppo distante dal locale selezionato. Coordiniamo i nostri lavoratori mediante un’applicazione che ci fornisce la loro posizione, l’orario di prelievo dal ristorante e della consegna. Sappiamo che in città esiste uno sciame di persone che possiede un mezzo, bicicletta o motorino, disposta a prestare qualche ora del proprio lavoro.
La nostra forza sta nell’informazione: sapendo dove si trovano i ristoranti e dove si trovano i clienti, siamo in grado di connetterli. Siamo più forti dei singoli ristoranti, perché offriamo più scelta e impieghiamo persone che non hanno qualifiche particolari e che possiamo sostituire tranquillamente. Come procedere con la retribuzione? Consideriamo di fissare un salario orario, un salario misto che consideri un fisso con premio a consegna oppure il cottimo. È chiaro che scegliamo l’ultima opzione, perché innanzi a noi si aprono solo tre scenari.
Nel primo caso, la richiesta si contrae: sappiamo che possiamo tenere sotto controllo il costo della manodopera. Meno ordini significano meno salari dovuti. Se la domanda rimane costante, pagheremo una cifra stabile nel tempo ai nostri addetti. Se la domanda aumenta, sapremo prevedere con precisione quanto ci costerà espandere il numero dei nostri collaboratori: sappiamo infatti quante consegne riesce a fare un lavoratore e quanto ci costa se è impiegato al massimo.
Si vede in questo modo che abbiamo creato impresa, scaricando il rischio sul lavoratore, che fornisce il mezzo e il lavoro, perché abbiamo saputo utilizzare il nostro elemento di forza: la capacità di gestire un numero di ordini sufficiente a fare massa critica.
Ma in cosa sta il legame tra i due mondi allora? Forse sbaglia chi parla di un chiaro ritorno al passato. Certamente abbondano i punti di contatto. L’attenzione forte alle metriche, introdotta con OLS, raggiunge un nuovo livello di sofisticazione. C’è l’attenzione maniacale per l’efficienza. C’è il lavoro a cottimo, con la differenza che la retribuzione differenziale mirava a stabilire quantità standard e mantenerle con una retribuzione superiore alla media del periodo, mentre in tanti casi i salari delle nuove si rivelano sufficienti solo a integrare altre forme di reddito. Senza trascurare le grandi contraddizioni del mondo fordista, è giusto ricordare che l’aumento di produttività portò ad incrementi salariali: dopo il 1908 la paga giornaliera si attestò sui cinque dollari, il doppio rispetto allo standard dell’industria.
C’è il tentativo di creare un mercato di massa nuovo, che non ha precedenti. Tuttavia, se le fabbriche Ford si estendevano verticalmente per l’intera filiera produttiva, tutto era gestito internamente, dalla raccolta delle materie prime, fino alla vendita, mentre molte start-up non possiedono quasi nulla se non capacità computazionale. E si vede quindi che al gigantismo industriale dei primi decenni del secolo si sostituisce oggi l’atomizzazione esasperata di questi modelli di business: controllare l’informazione e cedere qualsiasi cosa non abbia valore.
Le ragioni di questo sono complesse, anche se rispecchiano un trend generale. Eppure proprio qui sta la novità forte: la fabbrica taylorista possedeva i mezzi di produzione, addirittura prescriveva i movimenti che l’operaio doveva eseguire. Le moderne imprese sembrano invece fornitori esterni, ai quali micro-lavoratori autonomi si rivolgono in un contesto in cui il rapporto di forza è sbilanciato in maniera impressionante verso le prime.
Il lavoro non garantisce, così, alcun tipo di sicurezza: basterà ai nostri fattorini ipotetici solo se sono universitari che devono integrare un’altra fonte di reddito. Ma se da quel lavoro dovessero dipendere intere famiglie?
Alle analogie, quindi, si accompagnano antitesi rilevanti, che rendono l’access economy un fenomeno nuovo, difficilmente riducibile alle interpretazioni tradizionali, nonostante le prime ingannevoli apparenze.
Gli effetti nefasti del taylorismo sul benessere del lavoratore hanno segnato generazioni. Era pratica comune, nella fabbrica, che la mattina, quando l’operaio arrivava sul posto di lavoro, venisse corrisposto lo stipendio della giornata precedente. La cosa sconcertante, però, era che dopo un certo lasso di tempo capitava che i lavoratori nemmeno più si interessassero a ritirare la paga, tale era il logoramento fisico e psicologico cui erano soggetti.
Abbiamo parlato del taylorismo, ma questo non significa che non si siano sviluppati, in quegli stessi anni, altri paradigmi produttivi, mossi da visioni diverse. Troppo spesso all’organizzazione industriale del primo Novecento si associa la sola OLS, compiendo un errore fondamentale: non fu l’unica. Citeremo, a titolo di controesempio, la scuola dei sistemi sociotecnici, sviluppatasi negli anni Cinquanta, al Tavistock Institute: saranno tra i primi a rigettare l’idea della one-best way.
L’organizzazione fordista è una possibilità di organizzazione, frutto di una scelta errata, che trascura i lavoratori nel disegno delle mansioni.
C’è da dire, però, che sarà il taylorismo a farla da padrone, almeno fino agli anni Settanta. A mettere in crisi quel paradigma produttivo saranno anche e soprattutto due fattori esterni: la diffusione dell’automazione, che porterà a un aumento dell’importanza dell’apporto qualitativo dell’operatore e a una riduzione dell’incidenza del lavoro diretto; la crisi della produzione di massa, con l’accresciuta importanza di fattori diversi dal prezzo, come la qualità e la capacità di inseguire le richieste del mercato.
È difficile, ad oggi, immaginare qualcosa di analogo, ad esempio nel settore delle consegne. L’automatizzazione sembra ancora lontana e, anzi, la guida di un veicolo rispecchia esattamente quel tipo di lavoro a basso valore aggiunto difficilmente automatizzabile. Così come è difficile immaginare dimensioni, diverse dal costo e dal tempo di consegna ridotto, che entrino in competizione con la ricerca della massima efficienza. Rimane, però, un fatto: la decisione di gestire il lavoro in un modo piuttosto che in un altro è sempre una decisione politica del management. È bene diffidare dai profeti della mancanza di alternative. L’auspicio è che quegli stessi manager che dovranno decidere le politiche di retribuzione, si ricordino che il lavoratore “ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa,” come recita la nostra Costituzione.