Curare il razzismo come l’alcolismo
Lʼiniziativa è di una chiesa della città di Concord, in North Carolina, la Trinity United Church of Christ: organizzare una serie di incontri sulla falsariga degli Alcolisti Anonimi, ma per aiutare i partecipanti a vincere un altro tipo di dipendenza — il razzismo.
Lʼiniziativa è di una chiesa della città di Concord, in North Carolina, la Trinity United Church of Christ: organizzare una serie di incontri sulla falsariga degli Alcolisti Anonimi, ma per aiutare i partecipanti a vincere un altro tipo di dipendenza — il razzismo.
Le riunioni sono settimanali e vanno avanti da un mese con un discreto successo, una dozzina di partecipanti per volta. E non si tratta di incontri amatoriali o lasciati al caso: a presiederli cʼè uno psicologo qualificato e il metodo è lo stesso degli Alcolisti Anonimi anche nel tradizionale programma in dodici passi, che parte dallʼammissione del problema e arriva al “risveglio spirituale.”
Lʼidea è nata in seguito al continuo susseguirsi di notizie di arresti ingiustificati e omicidi della polizia ai danni di cittadini afroamericani. “Praticamente ogni settimana ci raccoglievamo in preghiera perché qualcuno era stato ucciso per strada,” ha detto il Reverendo Nathan King ai giornalisti della WCNC.
“Bisogna fare i conti con il razzismo tra di noi ed eliminarlo tra di noi.”
Nonostante il carattere iper-locale della vicenda, il principio sancito dalla piccola comunità parrocchiale di Concord è forte e perfino provocatorio: trattare il razzismo al pari di ogni altra dipendenza, ossia come una malattia che può essere curata tramite lʼanalisi e lʼascolto.
Per quanto lʼefficacia del metodo degli Alcolisti Anonimi sia scientificamente dibattuta, sin dalla prima comparsa dellʼassociazione, nel 1935, sono nati innumerevoli gruppi di auto-aiuto basati sul programma in dodici passi per curare ogni sorta di dipendenza o disturbo compulsivo, dai narcotici al gioco dʼazzardo. Il razzismo è solo lʼultima aggiunta.
Lʼidea di considerare lʼintolleranza e il pregiudizio razziale come un disturbo mentale risale almeno a unʼaffermazione di Albert Einstein — che, incredibilmente, sembra essere autentica — ma è stata rilanciata in tempi più recenti dallo psichiatra Alvin Poussaint, in un editoriale pubblicato nel 1999 sul New York Times.
Tra le ragioni di opposizione alla proposta ci fu allora la preoccupazione che, se il razzismo fosse stato ufficialmente riconosciuto da un punto di vista clinico, i razzisti avrebbero avuto buone ragioni per sentirsi de-responsabilizzati.
Il primo punto dei dodici passi è, in effetti, anche il più difficile: lʼauto-consapevolezza di avere un problema (che sia clinicamente riconosciuto oppure no) e la determinazione a volerlo risolvere. Per i razzisti, al contrario, è abbastanza abituale negare di esserlo.
Il 16 agosto, Greg Howard sul New York Times Magazine ha scritto che, dopo più di un secolo di storia del termine, il “razzismo” andrebbe ridefinito: nel dibattito pubblico spesso viene piegato ormai a designare non più un atteggiamento pubblico o una presa di posizione, ma soltanto una supposta condizione interiore e individuale — dunque indimostrabile dallʼesterno, per cui succede che un ex membro del Ku Klux Klan possa difendere candidamente Donald Trump dalle accuse di razzismo, o che Rudy Giuliani (e non solo lui) accusi di essere razzisti gli attivisti di Black Lives Matter.