Dentro la macchina del doping della Federazione Russa

Cosa c’è nel rapporto dell’agenzia antidoping mondiale che ha portato all’esclusione del team russo di atletica leggera dalle Olimpiadi di Rio.

Un crocevia brulicante di persone. Il laboratorio antidoping di Mosca si presenta come lo snodo principale di una struttura tentacolare, una Babele che sembra provenire direttamente dalle pagine di 1984. Le attività di ricerca vi procedono in modo frammentato e meccanico, di piano in piano, seguendo la planimetria dell’edificio. Ciascuna equipe lavora come un atomo indipendente e non ha che brevi contatti con i ricercatori degli altri piani: le provette anonime, giunte in un primo laboratorio, vengono sottoposte alle analisi di routine e poi spedite ai livelli superiori, senza che i ricercatori possano mai seguirne per intero l’elaborazione. Sarebbe facilissimo per chiunque alterarne i risultati – in effetti è quello che puntualmente accade.

Quello moscovita è l’unico centro anti-doping autorizzato dalla WADA [la World Anti-doping Agency, ndr]; dovrebbe pertanto rispettare determinati canoni di affidabilità e imparzialità, oltre a soddisfare elevati requisiti tecnici. Capita tuttavia d’incrociare per i suoi corridoi agenti della FSB, il KGB ai tempi di Putin. “L’ultima volta a Sochi abbiamo incontrato delle persone che fingevano di essere ingegneri del laboratorio, ma in realtà erano dei servizi di sicurezza federali.”[footnote] Wada Independent Commission Report #1, November 9 2015, p. 196 [/footnote] Così riferisce un testimone anonimo. Altri parlano di manomissioni degli apparati telefonici e di intercettazioni.

Un agente in particolare, Evgeniy Blotkin, è assiduo frequentatore delle sale del laboratorio. Le sue visite, a cadenza settimanale, ne fanno un habitué del luogo. Viene ricevuto regolarmente dal direttore del centro, il dottor Grigory Rodchenkov, per ricevere aggiornamenti rispetto al “mood”, all’“umore della WADA.”

Rodchenkov è responsabile di tutto ciò che avviene entro le mura del centro. Il suo compito precipuo è quello di controllare con la massima premura che i test vengano effettuati adeguatamente, di evitare che essi siano falsati da qualsiasi intervento indebito, interno o esterno, e che i risultati vengano comunicati alle autorità internazionali. Nel suo ambito, è considerato un luminare. Non a torto: “Sa quanto tempo ci vuole perché le droghe vengano smaltite dal corpo. Lo sa e lo comunica. È il più importante degli specialisti del campo.” In questi termini ne parla la discobola Yevgenya Pecherina nella sua intervista rilasciata al giornalista tedesco Hajo Seppelt, autore del reportage che nel 2014 provocò l’apertura dell’inchiesta giunta a termine in questi mesi.

Rodchenkov sa tutto di doping, sa anche come sfuggire ai rilevamenti risultando “puliti.” Sa quali sostanze somministrare e in che quantità per ogni momento della preparazione atletica, sa pure come ripulire per tempo l’organismo delle loro tracce. La sua prima cavia è il suo stesso organismo: s’inietta da solo i medicinali, va a correre, assume lassativi e nel mentre tiene monitorata l’attività del suo corpo. Per questo motivo a lui fanno riferimento tutti gli atleti di vertice del team russo e tutti quelli che al vertice vogliono arrivare, così come gli stessi tecnici e i medici della ARAF, l’All-Russia Athletic Federation.

A lui si rivolge anche Yuliya Stepanova nel 2010, dopo i campionati nazionali, a seguito di un test imprevisto. Informata del risultato delle analisi, positivo all’eritropoietina (EPO), la Stepanova viene posta di fronte a un’offerta che non può rifiutare: pagare 30.000 rubli al direttore del laboratorio attraverso il suo tramite, Evgenij Evsukov, per far sparire gli esiti del test. L’alternativa è quella di rimanere ferma per mesi, a due anni dalle Olimpiadi. E, detto fatto, i suoi campioni positivi non perverranno mai alla Russian Anti-Doping Authority (RUSADA), l’agenzia anti-doping russa.

Il meccanismo è semplicissimo: l’atleta effettua il test, poi comunica il numero del campione al proprio tramite, che a sua volta contatta Rodchenkov. Quest’ultimo provvede alla sparizione o all’abbellimento dei risultati.

Il 17 febbraio 2011 la Stepanova invia un sms al capo dei medici ufficiali della ARAF, il dottor Sergey Nikolaevich Portugalov, in cui riporta il numero del suo campione, il 2573960. Una settimana dopo fa lo stesso per il campione 2673502. All’interno del database informatico della WADA (l’ADAMS), il primo risulta irrintracciabile, mentre il secondo, dichiarato negativo dal laboratorio di Mosca, non è mai stato consegnato.

È così che la Stepanova riesce a gareggiare senza problemi nel 2011 e nel 2012, pur facendo uso regolare di sostanze dopanti, senza mai risultare positiva.

I 30.000 rubli dovuti a Rodchenkov sono l’indennizzo richiesto per le responsabilità assunte dal direttore. Clausola non scritta di questo scambio è la copertura a ogni costo dell’atleta, giungendo financo al suicidio professionale. È quello che accade nel dicembre 2014, quando la WADA, a seguito della diffusione del documentario di Seppelt, ordina a Rodchenkov di trattenere tutti i campioni presenti in quel momento in laboratorio (tutti quelli prelevati nei quattro mesi precedenti) in vista di un imminente controllo. I commissari dell’agenzia raggiungono Mosca sei giorni dopo, ma di campioni ne trovano appena 3.000, a fronte di una capacità massima di 10.000, per scoprire che Rodchenkov, per sua stessa ammissione, aveva fatto pulizia in preparazione alla visita. 1.417 campioni erano stati eliminati su sua disposizione appena tre giorni prima.

La federazione russa

Gli atleti sanno di poter contare non solo sulla protezione di Rodchenkov, ma anche della ARAF, la federazione russa di atletica leggera. Due in particolare sono le figure di riferimento, che fanno da ponte fra i volti più promettenti dello sport olimpico per eccellenza e il direttore del centro di Mosca: il medico federale Portugalov e il tecnico Melnikov. Entrambi percepiscono una percentuale sulle tangenti da loro girate a Rodchenkov.

Contemporaneamente, incoraggiano, talvolta costringono gli atleti ad assumere sostanze dopanti, adoperando strumenti molteplici di persuasione. L’arma prediletta è quella psicologica e subdola del “così fan tutti.” Così fan tutti quelli che vanno forte e vogliono andar forte, in Russia come nel resto del mondo: fanno uso di EPO, di steroidi e oxandrolone. Rifiutarsi di sottoporsi a tali pratiche o lamentarsene con il team nazionale prevede rischi spesso molto elevati, specialmente per chi vive di sport, come essere esclusi dal gruppo d’interesse federale. Una fonte anonima però, un atleta, parla espressamente di pericolo di vita: se non sei disposto a prestarti al gioco del team, “lascialo, altrimenti potresti finire per caso in un incidente stradale.”[footnote] Wada Indipendent Commission Report #1, p.51. [/footnote]

È proprio Melnikov a portare la Stepanova e la maratoneta Liliya Shobukhova per la prima volta da Portugalov. È sempre Melnikov a informare gli atleti preventivamente dei test a sorpresa, in modo tale che questi possano prepararsi per tempo e, all’occorrenza, sparire.

In effetti non è infrequente che gli atleti russi svaniscano nel nulla, proprio il giorno degli esami predisposti dalle agenzie anti-doping.

Il 22 maggio 2015 gli inviati della IAAF [International Association of Athletics Federation, ndr] si presentano a Yunost, ad Adler, località non distante da Sochi, dove si sta svolgendo un raduno federale. I commissari presentano la lista di atleti selezionati per i test alla reception e dal confronto con gli ospiti della struttura risultano tutti presenti. Il dottor Igor Pavlovich, contattato in rappresentanza della federazione, nega tutto, afferma che in realtà di atleti ce ne sono solo due e conclude aspramente che, essendo una struttura privata, nessuno ha il diritto di ficcare il naso liberamente nella lista degli ospiti dell’albergo.

I commissari procedono dunque all’esame degli unici due atleti disponibili, Ivashko e Lesnoy. Giunti alla porta 338, quella di Ivashko, ad aprire è però un’altra persona. Ivashko è a letto, dice ai commissari, e fa per raccogliere frettolosamente una farfalla da iniezione da terra. La stanza – riferiranno – è piena di siringhe e di medicinali non meglio identificati.

Il ragazzo che li accoglie ha un qualcosa di familiare. Durante l’attesa uno dei commissari ha infatti cercato le foto degli atleti del gruppo, per dare un volto ai tanti presunti assenti. Si tratta di Khiutte, uno dei nomi in lista misteriosamente spariti. A questo punto anche Khiutte – riapparso come per magia proprio davanti agli occhi dei rappresentanti dell’anti-doping – deve sottoporsi al test. Mentre i commissari ultimano le procedure burocratiche, entrambi i giovani ricevono nel giro di pochi minuti una telefonata da parte di un allenatore del team. Khiutte a quel punto inizia a innervosirsi, dice di non essere pronto, cerca di tirarla per le lunghe, beve due bicchieri d’acqua, mentre Ivashko, consegnato il suo campione, lascia la stanza.

I commissari individuano un terzo atleta, un altro di coloro che non dovevano esserci e che pure ci sono, Dyldin Maksim. Interrogati nuovamente riguardo alla sua presenza nella struttura, gli allenatori tentennano, si arrampicano sugli specchi e sostengono che Dyldin sarebbe dovuto essere via, a Volgograd, per una gara. Alla richiesta di firmare una dichiarazione scritta di ciò che vanno affermando però, i coach si rifiutano fermamente: dopo il reportage dell’ARD è stato impedito loro di rilasciare interviste di alcun tipo. La tensione si fa palpabile quando altri due uomini raggiungono i commissari. Vogliono le loro credenziali e si rifiutano di comunicare le proprie. Ringhiano che la IAAF non può effettuare analisi sugli atleti che non sono in un testing pool. Ne nasce un diverbio in cui i commissari cercano di spiegare loro che la IAAF è autorizzata a richiamare gli atleti per le analisi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È il principio del test a sorpresa.

Più tardi Julikov si lascerà sfuggire ingenuamente di essere sempre stati avvertiti preventivamente dalla RUSADA rispetto al “quando” e al “come” dei test, in anticipo di qualche giorno sull’arrivo ufficiale dei rappresentanti. Affermazioni, queste, che gettano pesanti ombre sull’affidabilità della stessa agenzia anti-doping russa.

Il medesimo scenario, con lo stesso copione, si ripete una quindicina di giorni dopo a Saransk, dove è in ritiro il gruppo della marcia. A condurre i test è l’agenzia privata IDTM. I commissari si presentano al campo all’alba del 2 giugno con la lista degli atleti da esaminare. Sono le 6.50 e ad attenderli trovano solo un allenatore, Nikitin Sergey. Gli atleti non sono lì, non ha idea di dove possano essere, ma di certo non sono a Saransk.

Di tutti i registrati nella lista, solo due hanno lasciato un numero di telefono. Lo stesso numero – ovviamente non il loro, ma quello di Viktor Chegin, tecnico federale responsabile della marcia, colui che ha portato la squadra russa a livelli solo poco tempo fa inimmaginabili, ma che guarda caso ha visto la sospensione di ben 19 marciatori nel corso degli ultimi anni, facendo di quella russa la squadra col più alto tasso di atleti positivi al mondo.

Quasi il 60% degli atleti di Chegin sottoposti a test recentemente sono risultati infatti positivi a sostanze dopanti varie. Nonostante ciò, e nonostante su di lui vertano tre inchieste, Chegin in patria è un eroe, coccolato e vezzeggiato dalle più alte autorità di Stato. Proprio a lui è dedicato il campo di Saransk.

Nikitin intanto temporeggia, dà risposte contraddittorie, poi finalmente fornisce i contatti degli atleti. I commissari cercano quindi di raggiungerli telefonicamente, senza successo: nessuno risponde.

Alle 10.25 i commissari inviano un messaggio in russo a tutti gli atleti, dando loro un ultimatum di mezz’ora per presentarsi all’appello e sottoporsi al test. E finalmente qualcuno si palesa. A questi – Mineeva, Noskov, Medvedeva, Bogatyrev and Strelkov – viene chiesto dallo stesso Nikitin di sottoscrivere un rapporto in cui si sostiene di non aver mai ricevuto né notifiche, né richiami, che l’orario del ritrovo è stato scritto dai commissari, che hanno sì firmato la documentazione sottoposta loro, ma di non averla compresa, essendo in inglese.

Gli altri aggiungono tra le note di non aver ricevuto il messaggio o di non avere il cellulare dietro. Tutti documenti vengono poi visionati e controllati da Nikitin prima di essere riconsegnati. L’atmosfera è surreale: Nikitin grida, gli altri allenatori e gli atleti si lamentano, vogliono che l’orario del richiamo venga cambiato, qualcuno addirittura piange e appare terrorizzato. I commissari si rendono conto che i ragazzi “non agiscono secondo la propria volontà.”

Ma la sovraeccitazione del momento è pienamente giustificata: dei quindici campioni collezionati, nove, provenienti da sei atleti, sono positivi, tutti all’EPO.

Anche in questo caso, il meccanismo è chiaro. Il ruolo degli allenatori federali è quello di frapporsi tra i commissari e l’atleta, creando una barriera che impedisce innanzitutto il loro raggiungimento, per passare poi alle vere e proprie minacce verbali e fisiche. L’obiettivo è evidentemente quello di ostacolare il lavoro delle agenzie anti-doping e di guadagnare tempo prezioso per far sì di inficiare il risultato dei test, dilazionando i tempi delle analisi, dando modo agli atleti di prepararsi e, per quanto possibile, di ripulirsi. Quanto più ritardo nei rilevamenti viene guadagnato, tanto più difficile diventa rintracciare i micro-dosaggi di sostanze proibite. Anche le contestazioni successive, il caos relativo agli orari e i tentativi di influenzare il riempimento dei documenti fanno parte di una strategia tesa a compromettere la validità dell’esame.

Anche in questo caso non si tratta di una protezione gratuita: ciascun atleta versa una quota degli introiti ottenuti grazie alle proprie vittorie ai tecnici federali, oltre che a Sergey Nikolaevich Portugalov, il medico ufficiale ARAF, che lavora di concerto con Melnikov.

Ma quello appena descritto è solo uno dei circuiti in cui un atleta può rientrare. Durante una conversazione registrata segretamente dalla Stepanova mentre si trova a colloquio con il Vladimir Kazarin, tecnico russo molto noto e influente, Portugalov viene descritto come distratto e smemorato, a causa – bontà sua – dell’enorme quantità di atleti da lui seguiti, che provengono non solo dall’atletica leggera, ma anche dallo sci, dal nuoto, dal cross country. Kazarin è per la verità un concorrente di Portugalov: offre agli atleti il medesimo servizio, ma proponendo loro un programma differente, con il vantaggio di una maggiore affidabilità e sicurezza.

Una sentenza spietata

L’esclusione dell’intero team russo di atletica leggera dalle Olimpiadi di Rio è un evento senza precedenti nella (pur sempre breve) storia dello sport moderno, che ha suscitato reazioni ambivalenti. Spiacerà non vedere in pedana la Zarina, Yelena Isinbayeva, a sfidare la gravità inseguendo il terzo titolo olimpico. Con lei, rimarranno a casa molti campioni che, di fatto, non sono mai risultati positivi ad alcun test anti-doping. Questo dato, come abbiamo visto, nel mondo dello sport russo non è garanzia di alcunché.

In molti si sono sollevati contro la decisione della IAAF, forse senza capire fino in fondo l’entità delle accuse rivolte contro l’ARAF e contro le autorità che avrebbero dovuto vigilare sugli atleti, in prima battuta la Russian Anti-Doping Agency (RUSADA). Qualcuno, sull’onda di sentimenti antiamericani e complottismi confusi, ha addirittura ventilato l’ipotesi di una cospirazione internazionale ai danni della scomoda Russia putiniana, rianimando guerre fredde che, almeno in questo caso, non hanno ragion d’essere.

Questo perché la sentenza del CIO è l’esito naturale di un’inchiesta approfondita, che colpisce la Russia solo per caso, solo perché è in Russia che qualcuno ha deciso di parlare e di svelare l’intrico losco che si cela dietro i successi di uno dei team più forti al mondo.

Ma è solo la punta dell’iceberg: non riguarda solo l’atletica e non riguarda solo la Russia. Questo sottolineano ripetutamente gli inquirenti della WADA nel loro lungo rapporto. Ulteriori sviluppi nelle indagini sono attesi nei prossimi mesi.

La gravità dei risultati ottenuti – dei quali si è cercato qui di rendere uno spaccato, selezionando solo alcuni esempi – imponeva però provvedimenti rapidi e magistrali, per non ritrovarsi, ancora una volta, nell’imbarazzante condizione di ritirare medaglie e allori olimpici ad anni di distanza e per non minare ulteriormente la credibilità di un intero movimento sportivo.

Quella della IAAF, suffragata dal Tribunale Sportivo di Losanna, non è una punizione sommaria: l’impiego di sostanze dopanti tra gli atleti russi è una pratica studiata e consapevole, ben radicata e regolarmente integrata nei piani d’allenamento, condotta sotto l’egida di allenatori e medici federali, fomentata dalle alte sfere dell’ARAF. Come se non bastasse, su tutto ciò sembra estendersi la longa manus della Grande Madre Patria. Anche il governo russo, infatti, è coinvolto pesantemente. Ha continuato – secondo una rodata tradizione sovietica – a fare da scudo ad attività illecite, attraverso il Ministero dello Sport e i servizi segreti.

A fugare i dubbi rispetto al fatto che dietro non vi siano disegni di sorta per attaccare il dominio di Vladimir Putin, quanto piuttosto evidenze cui si doveva porre rimedio il prima possibile, è l’origine stessa dell’inchiesta. Il reportage di Hajo Seppelt per la ARD è frutto di uno sforzo indipendente e neutrale, che non esclude, ma anzi rafforza, un terribile (ma sufficientemente fondato) sospetto, ossia che la Russia non sia che un esempio – il più clamoroso e peggio organizzato – di come le più ricche e potenti federazioni al mondo coprano e foraggino il giro del doping.