Giochi pericolosi? Il biohacking è pronto a diventare per tutti

Viaggio di sola andata nel mondo dei grinder: da chip impiantati nelle mani, a magneti nei polpastrelli. Con una conversazione con Amal Graafstra, fondatore di Dangerous Things.

Giochi pericolosi? Il biohacking è pronto a diventare per tutti

in copertina: radiografia delle mani di Amal Graafstra

Da chip sotto pelle a magneti nei polpastrelli, da droghe per non dormire mai più a mix per sopprimere l’ubriachezza – il biohacking è entusiasmante, o da incubo, o entrambe le cose. Ne abbiamo parlato con il fondatore di una start up che vende chip sottocutanei, Amal Graafstra.

Le persone trattenevano il fiato e strabuzzavano gli occhi quando Amal Graafstra annunciava di essersi impiantato un chip sottocutaneo nella mano. Era il 2005, e l’ultima volta che l’espressione “chip sottocutanei” aveva costeggiato il mainstream era per descrivere le tag metalliche aliene indagate da Fox Mulder e Dana Scully in X-Files.

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All’incrocio tra biotecnologia e informatica, Amal Graafstra è un pioniere del biohacking — l’arte, ancora nella propria infanzia, del potenziare il corpo con impianti cibernetici.

Dieci anni e un altro impianto (nell’altra mano) dopo, Graafstra è fondatore di una start up che vende chip come i suoi — Dangerous Things, cose pericolose.

Abbiamo parlato con lui mentre cercavamo di far quadrare il cerchio su cosa sia effettivamente il biohacking e se una persona normale vorrà mai impiantarsi un chip RFID nella mano.

Che cos’è il biohacking

“La gente è strana,” mi dice su Skype l’uomo con due impianti. “Anni fa i pacemaker davano scandalo, oggi sono considerati assoluta normalità. Però un piccolo chip in una mano è sconvolgente.”

È vero, la medicina ogni giorno si interseca più strettamente con la tecnologia, rapporto che in realtà custodisce da sempre, ma che negli ultimi due anni si è fatto particolarmente evidente, grazie al crescente interesse di società altrimenti strettamente dedicate ai soli consumatori come Google e Apple.

Tuttavia, porre sviluppo tecnologico nella medicina e biohacking sullo stesso piano risulta parzialmente una forzatura.

La parola hacking in biohacking non è infatti casuale, o abusata. Quasi importante quanto la funzione transumanista è infatti l’aspetto do it yourself, strettamente caratteristico dell’etica hacker.

Sono biohacker non semplicemente coloro che alterano il proprio corpo, ma chi segue la procedura e sviluppa la tecnologia direttamente in casa.

Da chip iniettati sotto pelle a magneti inseriti nei polpastrelli, da droghe per alterare il ritmo circadiano a mix per sopprimere i sintomi dell’abuso di alcolici, i biohacker seguono lo sviluppo tecnico, installazione, ma anche i fondamenti della chimica delle sostanze che assumono.

Origini culturali

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Il movimento biohacker nasce dall’incrocio della biologia fai da te con la cultura BDSM e della modificazione corporea.

Alle radici, il sogno transumanista di superare le soglie della normalità.

Culturalmente il biohacking deve tutto al movimento artistico e letterario biopunk, un sottogenere della fantascienza, strettamente legato per temi e “feeling” al cyberpunk, che affronta scenari futuribili dove la manipolazione genetica e del corpo agiscono come motrici delle vicende.

I bastioni del biopunk sono comuni ai grandi tòpos del genere: futuri distopici dove la sperimentazione genetica, spesso guidata da multinazionali che hanno sostituito gli Stati, ha creato una nuova, piú profonda divisione classista, ai limiti di una struttura per caste.

La sfiducia verso il potere e il capitalismo, combinati con la fascinazione orrorifica ma superomista per le conseguenze estreme dello sviluppo scientifico, portano a disegnare futuri da incubo, ma che è così facile desiderare imitare.

È così che dal nichilismo del suffisso punk nasce la volontà di portare qualcosa di quel futuro immaginifico nel contesto del presente contemporaneo. Di diventare, in qualche modo, cyborg ante litteram.

Gli strumenti iniziano a esserci davvero nei primi anni Duemila, quando il movimento DIY bio, che fino a quel momento si era concentrato piú attorno alla scena della sperimentazione biologica non autorizzata, si avvicina al corpo umano — e a innesti che, fossero di finzione, chiameremmo cibernetici.

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Nascono così i grinder, una comunità di hacker che deve il proprio nome all’iconico fumetto di Warren Ellis Doktor Sleepless, dove un gruppo di personaggi si identifica con quel nome, dall’espressione videoludica to grind, l’azione di migliorare le statistiche del proprio personaggio in un gioco ripetendo continuamente le stesse azioni. Per i grinder di Warren Ellis la vita reale ha un foglio di abilità con statistiche come un videogioco, e ognuna di queste voci può essere modificata e alterata — con qualsiasi strumento a disposizione.

Il logo dei grinder nel fumetto di Warren Ellis
Il logo dei grinder nel fumetto di Warren Ellis

Grinders e makers

In un contesto veramente punk, tra garage sporchi e dita infettate, i grinder emergono nel mondo reale.

I biohacker incontrano così la comunità maker, hobbysti dedicati alla conversione tecnologica, al riutilizzo, alla trasformazione, in un revival di costruttivismo sociale.

Siamo agli albori del movimento, tra il 1999 e i primi Duemila — le prime avanguardie iniziano a installare magneti nei polpastrelli senza nessuno studio sulle sostanze che introducevano a livello sottocutaneo, spesso usando strumenti di fortuna, in locali in nessun modo sterili e disinfettati.

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“Quando ho costruito il mio primo chip, la scena era ancora dominata strettamente dal movimento maker, con persone che spesso facevano cose oggettivamente molto pericolose — prendevano i chip di cui avevano bisogno da chiavi di automobili e li innestavano sottopelle senza grosse preoccupazioni,” mi racconta Graafstra divertito. “È in quel momento che ho capito che fosse necessario costruire una società che potesse rispondere alle necessità degli entusiasti offrendo maggiore sicurezza, e assistenza professionale.”

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Cose pericolose

Graafstra continua a sviluppare i propri chip RFID fino al 2013, quando lancia una campagna su Indiegogo da cui nascerà la sua società, Dangerous Things.

Dangerous Things vende cose pericolose, ma è impegnata profondamente nella normalizzazione di queste tecnologie. Chip con una tag RFID che può essere letta e scritta da qualsiasi computer dotato di un chip NFC: tutti i telefoni Android, e molti Windows Phone. (L’iPhone ha un chip NFC per i pagamenti, ma Apple non ne permette l’uso libero all’utente)

I chip sono venduti già inseriti in una apposita siringa da piercing, insieme a un paio di guanti. Tutto è già disinfettato e chiuso ermeticamente.

Sul sito sono disponibili video che spiegano come effettuare la procedura da soli.

“È molto semplice e non fa più male di fare un piercing. Il dolore dura pochi secondi e in due o tre giorni la piccola ferita è completamente rimarginata. Eppure pochi vogliono installare il chip da soli. Non vogliono vedere la siringa,” mi spiega Graafstra.

“Per questo abbiamo creato e stiamo espandendo una rete di partner nei laboratori di piercer e body modificator: un utente può comprare il proprio chip e poi farlo installare da un professionista.”

Il legame con la comunità della modificazione corporea limita la diffusione mainstream?

“Forse, ma al momento non abbiamo molte altre scelte. La medicina è una scienza riparativa, non accrescitiva, abbiamo provato a parlare con medici — qualsiasi medico generale può effettuare l’installazione — ma con poca fortuna. Un altro discorso si potrebbe fare con i chirurghi plastici, ma ovviamente i costi salirebbero a sproposito. I piercer sanno mantenere una stanza in condizioni sanitarie impeccabili, ci troviamo benissimo con la nostra rete di collaboratori.”

“Noi però non modifichiamo il nostro corpo in funzione spirituale, o con scopi artistici: crediamo nella vera funzionalità di questi potenziamenti.”

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UKI

Graafstra sta lavorando a un nuovo progetto, UKI. Il suo obiettivo, risolvere uno dei piú annosi problemi tecnologici del decennio — password, criptografia, e accesso fisico: con quale strumento garantiamo l’identità di una persona per assicurare che nessuno acceda ai suoi dati?

Le password sono un sistema altamente migliorabile: sono inevitabilmente deboli se ricordate a memoria, o espongono a rischi di accesso totale se archiviate in un unico contenitore non sicuro. (Come il file di testo “PASSWORD” che avete sul desktop sotto questa finestra.)

La risposta dell’industria è stata finora quella di integrare sistemi di riconoscimento biometrico, come la retina o l’impronta digitale.

“Ma la propria retina e le proprie impronte digitali sono informazioni analogiche. Non possono essere criptate, e ogni anno che passa sarà sempre piú facile falsificarle. Non sono sicure.” dice Graafstra.

UKI utilizzerà un chip impiantato nella mano dell’utente per agire come token di riconoscimento criptato.

In un’unica soluzione UKI si propone di diventare un elemento di riconoscimento digitale utilizzabile in tutti gli aspetti quotidiani. Permetterebbe di aprire la porta di casa e avviare l’automobile senza chiavi, di sbloccare computer e telefoni, di eliminare tutte le password dalla propria vita, e lo farebbe senza poter essere in nessun modo clonato, riprodotto, in maniera completamente sicura. (A meno ché non vi taglino la mano in due per recuperarlo.)

Questo, secondo Graafstra, potrebbe essere l’utilizzo che lentamente porta il biohacking nel mainstream.

Il futuro

Undici anni fa si è iniettato il primo chip. Quest’anno, insieme a Dangerous Things, lancerete UKI. Cosa attende il biohacking nei prossimi dieci anni fa?

“Credo che nei prossimi anni vedremo molte acquisizioni da parte di grandi aziende della tecnologia, mentre lo sviluppo della tecnologia wearable (indossabile, come gli smartwatch) diventa sottocutaneo. In questo momento tutto lo sviluppo è ancora fuori dal corpo, anche per i progetti piú d’avanguardia, come le lenti a contatto a cui sta lavorando Google. Ma nei prossimi dieci anni una società tecnologica mainstream introdurrà senza dubbio il suo primo prodotto sottocutaneo.”

Nel frattempo, l’idea di farsi impiantare un chip sotto pelle sta subendo il processo di normalizzazione di tutti gli altri procedimenti medici, anche se questo non è ancora stato approvato da nessun ente nazionale.

“Vediamo una chiara linea di demarcazione,” mi dice Graafstra, “Quando descriviamo questa tecnologia a chi ha meno di 30 anni, vediamo curiosità, spesso entusiasmo. Sopra i 30 anni, la reazione tipica è la paura. Ma stiamo lavorando per portare questa tecnologia nelle mani (letteralmente, ndr) di tutti, non solo degli entusiasti.”