Il gattopardismo in Spagna e lo spettro del Belgio
Il 13 luglio Pedro Sanchez ha ribadito il proprio “no categorico” a Rajoy, in vista di un governo di larghe intese. Così facendo, anche se nessuno si augura un terzo richiamo alle urne, la situazione spagnola rimane in stallo.
Mercoledì 13 luglio Pedro Sanchez ha ribadito il proprio “no categorico” a Rajoy in vista di un governo di larghe intese o anche solo di un appoggio esterno alla cerimonia di investitura; insieme a lui, sorprendentemente, anche Albert Rivera, leader di Ciudadanos, che decide di astenersi per facilitare la salita di Rajoy al governo “ma solo dalla seconda votazione”: entrambi i partiti vogliono sottolineare, con pesi e misure diversi, il loro ruolo fondamentale nel processo di cambiamento in atto nella politica spagnola.
In tempi bui l’uomo si aggrappa spesso alle sicurezze, anche a costo della libertà, e la politica populista cavalca questi fenomeni per crescere a dismisura. L’esito finale non si conosce quasi mai in anticipo, ma spesso sfocia nello stallo, tra la paura di un cambiamento troppo radicale e il terrore che “tutto cambi perché tutto resti com’è”.
Votazioni del 26 giugno, seconda tornata elettorale per scegliere il governo in Spagna, dopo la situazione di stallo che dal 20 dicembre ha posto fine, per la prima volta nella Storia democratica del Paese, al bipartitismo. La situazione che si era creata vedeva la predominanza di quattro partiti, i primi due su fazioni opposte ma legati a tradizioni ideologiche storiche (il PP, partito uscente, facente capo a Rajoy, e il PSOE di Pedro Sanchez), gli altri due promotori del famoso cambio che agita la situazione sociopolitica spagnola dai tempi della campagna degli indignados: Ciudadanos, che non nasconde la propria anima profondamente legata al PP, e Podemos, vero arringatore di folle, con a capo Pablo Iglesias.
La situazione creatasi non permetteva però la formazione di alcun governo senza collaborazioni e larghe intese: il PP, risultato vincitore, non è riuscito a ottenere i numeri necessari per governare con l’appoggio di Ciudadanos, suo naturale alleato, e gli altri due partiti hanno optato per un netto rifiuto. Secondo la Costituzione spagnola, dunque, è scattato il via libera per nuove elezioni dopo sei mesi di impasse.
Dopo aver constatato l’importanza irreversibile di Podemos durante le elezioni comunali (Manuela Carmena e Ada Colau sono diventate i sindaci di Madrid e Barcellona, con l’appoggio di piattaforme legate al partito), in questi ultimi sei mesi si vociferava del probabile “sorpasso”, espressione mutuata dal famoso film di Dino Risi: si prevedeva infatti che Podemos sarebbe divenuto il secondo partito del Paese e, se il PP di Rajoy avesse vinto senza possibilità di formare un governo così come già accaduto, il compito sarebbe toccato a Iglesias.
Cos’è dunque successo il 26 di giugno? Sorprendentemente, nulla.
La situazione non è cambiata di molto: il PP è tornato a trionfare, nonostante i numerosi casi di corruzione interni al partito, complice la paura delle crisi che stanno attraversando l’Europa in questo periodo (i migranti, il terrorismo, la Brexit); il PSOE si conferma secondo partito, nonostante la perdita di qualche scranno alla Camera; Podemos resta in terza posizione e risulta in netto vantaggio nei territori indipendentisti, Catalogna e Paesi Baschi, sottolineando quanto l’opinione pubblica interpreti la sua condotta in senso rivoluzionario e a tratti sovversivo.
Nonostante quindi ormai Podemos sia un fenomeno imprescindibile nella politica spagnola, risulta ancora vincitore il PP, che però non ha nuovamente i numeri per governare, né solo né con l’appoggio di Ciudadanos. Tolta la possibilità di una qualunque collaborazione con l’acerrimo nemico Iglesias, a Rajoy non resta che la possibilità di sperare in una collaborazione con il PSOE, prendendo spunto dalla situazione politica italiana.
Uno scenario, questo, che non gioverebbe all’immagine del politico al lavoro per il cittadino, poiché proprio Podemos, il partito “de la calle”, verrebbe messo in disparte e rafforzerebbe l’idea di casta e di potere verticale contro cui combatte, senza però riuscire a proporre alternative concrete.
Sanchez, che nel voto di giugno ha perso alcuni seggi passati a Rajoy, sostiene di essere “l’alternativa al PP, non la sua soluzione”; mentre Rivera auspica che il primo ministro possa iniziare con gli avversari un dialogo “basato su negoziazioni e collaborazioni, non su ricatti e minacce”. Insomma, nessuno si augura un terzo richiamo alle urne, ma esso probabilmente avverrà, e già si immagina quando: il mese più probabile è novembre, terza tornata in meno di dodici mesi. Se serva a qualcosa, non si sa. Ma una riflessione è necessaria, e se la Spagna non vuole rimanere senza governo come il Belgio nel 2012 sarà importante attuarla.