All’ottavo giorno di viaggio, vagando da una parte all’altra di Varsavia, capisco che la vera difficoltà nel viaggiare da sola, quello che fa più paura, non è l’esterno, l’altro, il diverso, l’interazione con persone e luoghi sconosciuti, ma l’impossibilità di evasione da me stessa. Non c’è altro in cui rifugiarmi, ci sono solo io. È una sensazione inedita, un po’ faticosa, non spiacevole. E poi comunque mi distraggo, leggo molto.
“Quale blend vuoi?”
“Eh?”
Il ragazzo biondissimo del bar indica con un dito uno schieramento barattoli disposti con ordine sul bancone.
“Abbiamo quindici diversi blend, quale preferisci?”.
Lo guardo perplessa. Ho chiesto solo un caffè macchiato. L’ho chiesto perché era scritto sul menù, perché è mattina, perché la mattina si beve il caffè e dei blend non me ne frega assolutamente niente. Che poi, da quando c’è bisogno di avere quindici blend diversi per fare un caffè? L’ultima volta che ho controllato il miglior caffè del mondo era ancora quello italiano, e nessuno in Italia mi chiede mai che blend voglio quando ordino un macchiato.
Mi rendo conto che lo snobismo culturale è emerso troppo velocemente perché potessi rendermene conto – e lo snobismo culturale italiano si nutre principalmente di due cose, il cibo, perché noi mangiamo bene e gli altri no, e la moda, perché noi ci vestiamo bene e gli altri no – e lo ricaccio indietro. Diamo una chance ai quindici barattoli di chicchi di caffè non ancora tritati che mi scintillano sotto il naso.
“Oh. Beh, non lo so, scegli tu.”
Il biondino mi guarda con disapprovazione. Cosa ci sono entrata a fare, sembra volermi chiedere, in quel bar così attento ai blend se non voglio fare nemmeno un piccolo sforzo per decidere il gusto del mio caffè?
“Più forte o meno forte?”
“Più forte.”
La cosa sembra soddisfarlo. Ondeggio da un piede all’altro in attesa della mia tazzina e occhieggio una poltrona di velluto verde sulla quale medito di passare la prossima mezz’ora della mia vita. I bar qui al Nord sono tutti curatissimi, accoglienti, esteticamente piacevoli. Okay, forse non tutti, ma una buona percentuale. L’operazione caffè, però, richiede più tempo del previsto e vagamente sbalordita osservo il barista lanciarsi in complicatissimi preparativi che quasi mi sento in colpa di aver ordinato un caffè macchiato.
Prima seleziona con cura i chicchi dai vari barattoli. Poi li trita. Poi pulisce la macchina del caffè (?!). Poi inserisce il caffè nella macchina del caffè. Poi posa con delicatezza un biscotto su un piattino e gli vorrei dire che non serve, solo celiaca, grazie, ma con tutta la precisione che ci sta mettendo mi sembra crudele e me ne sto zitta.
La cerimonia dura un quarto d’ora e quando finalmente riesco a mettere le mani sul complicatissimo caffè come minimo mi aspetto che sia il più buono che io abbia mai bevuto.
Sorseggio. Il biondino mi guarda con un sorriso incoraggiante. Gli sorrido di rimando. Il caffè è disgustoso, ma mi dispiacerebbe dirglielo.
La mia riflessione sullo snobismo culturale italiano, e a tratti generalmente mediterraneo, su tutto ciò che riguarda il cibo, continua nel pomeriggio, mentre pesco cetriolini sottaceto da un’insalata vegana. Sembra che siano tutti vegani qui, hamburger vegani, ristoranti vegani, prodotti per capelli vegani. L’insalata vegana che sto mangiando è composta di tofu, cipolla, peperoni crudi, lattuga e cetriolini, il tutto condito con una passata di pomodoro che mi è stata personalmente consigliata dalla cameriera. Deve essere una vita triste, quella di questi luoghi dove non sanno come mangiare bene. Però anche io, che diavolo ordino.
Nel pomeriggio vado finalmente a visitare la Città Vecchia di Varsavia, che vecchia non è per niente, perché, in quanto cuore della città, è la parte che più è stata sbriciolata, calpestata e fatta a pezzi durante la guerra. Poi l’hanno ricostruita pari pari come era prima, “with a cookie-cutter” leggo su una guida di quelle giovani, hip e spiritose che si trovano negli ostelli.
La guida dice anche che è una zona quasi esclusivamente turistica e che non c’è niente di interessante da fare o da vedere. Che la zona sia quasi esclusivamente turistica si vede, anche se ci capito nel bel mezzo di un’acquazzone e non c’è in giro quasi nessuno. Sul fatto che non ci sia niente di interessante da vedere, tuttavia, mi permetto di dissentire. Almeno è bella, è una zona graziosa, ricostruita bene, ti fa pensare con nostalgia a quella che doveva essere la Varsavia pre-bellica.
Una città piacevole. Ma pare che il fatto che non sia originale, non sia vecchia al punto giusto, sia una copia, la renda una trappola per turisti inaccettabile. Le copie non ci piacciono, puzzano di truffa. Vi dirò, a me la passeggiata tra le vie belle e piccole e le case colorate è piaciuta parecchio. Mi ha rilassato l’occhio. La Varsavia vera, quella grande e grigia e piena di cose da fare, che sta al di fuori dalle mura ricostruite con minuzie, alla lunga, da guardare è faticosa.
Riflessione
A una settimana di viaggio, posso dire che, tutto sommato, mi sento più tranquilla a girare da sola qui al Nord di quanto io mi senta in Italia, il mio Paese, o addirittura a Milano, la mia città. E questo nonostante io sia riuscita a cacciarmi un paio di volte in zone poco raccomandabili della città – vi dirò per senso d’avventura per non dirvi per distrazione, ma mi hanno fatto giustamente notare che ho un rapporto un po’ complicato con la cartina. Comunque, possibile, mi domando? O semplicemente qui sono meno cosciente, o più cosciente, ma cosciente in modo diverso, di quello che succede fuori?
Che poi faccio la spessa ma non appena sono entrata nella sala comune dell’ostello, e mi sono trovata dieci uomini schierati piedi sul tavolo birra in mano a vedere la partita, ho fatto dietrofront veloce come la luce e me ne sono andata a scrivere in cucina. Forse avessi trovato dieci donne avrei fatto dietrofront uguale. Forse no. È l’unità del gruppo contro il singolo che mette a disagio.