La situazione dei migranti in Stazione Centrale è ancora disperata

Come ogni estate arriva l’emergenza migranti a Milano. Siamo andati in Stazione Centrale per parlare con alcuni di loro.

La situazione dei migranti in Stazione Centrale è ancora disperata

tutte le foto, Marta Clinco

Ogni anno, puntuali insieme all’estate, a Milano esplodono le nuove “emergenze migranti.” Il sistema di accoglienza milanese, messo sotto pressione dall’aumento degli arrivi causato dalla bella stagione, collassa ormai sistematicamente: i migranti si trovano così a dormire sul mezzanino della stazione o in piazza Duca d’Aosta, ancora una volta, tra gli strilli del centrodestra e la goffaggine delle autorità. Nel 2016, il copione si ripete. Con la chiusura della rotta balcanica e la ripresa degli sbarchi dalla Libia, un gran numero di migranti e profughi (per la terminologia corretta, cliccate qui) converge su Milano, da dove spera di raggiungere in qualche modo il Nord Europa, oppure – e questa è la novità dell’anno – di stabilirsi in Italia.

Venerdì la politica e i media si sono accorti che la situazione stava diventando di nuovo critica. L’assessore alle Politiche sociali Majorino, riconfermato nel suo ruolo da Beppe Sala, ha dichiarato al Corriere che “in queste notti la città di Milano, tenendo conto delle differenti tipologie riguardanti i diversi percorsi relativi ai processi di regolarizzazione, ospita oltre 2.500 migranti a notte,” e che la nuova volontà di molti che arrivano di restare in Italia “non ci permette assolutamente di sapere se saremo in grado di reggere l’urto dei prossimi arrivi.” Per poi essere rimbeccato da Riccardo De Corato: “La Regione non vuole più immigrati, Majorino se lo metta bene in testa.” Oggi, Majorino ha sorprendentemente dichiarato che “sono necessari due mesi di stop agli arrivi.”

Per incontrare gli “immigrati,” domenica noi di The Submarine siamo andati in Stazione Centrale.

Dall’anno scorso sono cambiate molte cose ‒ ad esempio, ci sono meno siriani ed è sparito “l’acquario,” la struttura di vetro sotto al gigantesco atrio d’ingresso entro cui i migranti venivano accolti. L’atmosfera tuttavia è la stessa, anche a livello atmosferico: sul piazzale fa caldissimo. I migranti si distinguono subito da tutti quelli che, anche stranieri, vanno e vengono dalla stazione: mentre i viaggiatori sono di fretta e camminano svelti sopra e sotto il granito, loro stanno fermi sotto gli alberi davanti alla stazione, seduti sui muretti o per terra, apatici. Stanchi. In questo momento, il loro viaggio li costringe a stare fermi, mentre tutto intorno a loro si muove.

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La parte più difficile è riuscire effettivamente a comunicare con loro. La maggior parte di chi bazzica la Centrale in questi giorni viene dal Sudan o dall’Eritrea e difficilmente sa qualche parola di inglese: la maggior parte di loro, oltre alla propria lingua, conosce solo l’arabo ‒ chi bene, chi male. Ci è venuta in soccorso una volontaria che lavora da anni in stazione con i profughi e ha imparato le basi della lingua. Le cose che domanda chi passa di qui sono sempre quelle: come fare ad arrivare in Germania o in Francia, dove dormire la notte. E le cose che gli vengono dette sono sempre le stesse: soprattutto, non fidarsi di tutti.

“Ci sono alcune persone, specie nordafricani, che truffano i migranti,” ci spiega mentre andiamo dal portico verso la piazza. “Vanno da loro e magari si offrono di aiutarli a fare il biglietto ferroviario per la Germania. Poi però glielo fanno pagare 100 euro anziché 75.” Ci avviciniamo a un gruppo di africani. Sembrano una famiglia, stanno seduti all’ombra di un edificio di vetro costruito davanti alla stazione. Probabilmente, come l’acquario dell’anno scorso, è destinato a diventare uno spazio commerciale, ma adesso è vuoto. È chiuso con un lucchetto da bici e ci si vede attraverso.

Iniziamo a parlare con quella che sembra la ragazza più giovane. Non parla inglese, ma riusciamo a capire che viene dall’Etiopia. Si intromette una signora più anziana che invece lo parla abbastanza bene. Le mancano quasi tutti i denti.

La signora ha un’età indefinibile. Oltre a non avere denti, tra i suoi capelli ricci e neri ne spuntano alcuni bianchi, e il viso è segnato da rughe. Però ha un’aria giovanile. Proviamo a chiederglielo ma evidentemente ci capiamo male, perché lei inizia a raccontarci dell’Etiopia, della dittatura e della guerra con l’Eritrea. “Sono in Italia da una settimana e non mi sembra vero di essere qui. Non siamo più in pericolo, non siamo più in mezzo a persone cattive.”

Poche volte si realizza davvero quanto siano vulnerabili queste persone, anche una volta arrivate in Europa. Non hanno uno status giuridico, sono in una sorta di limbo. Sono in balia di truffatori e trafficanti che provano solo a spremergli soldi. “Ci sono alcuni egiziani e marocchini che si fanno pagare 400 euro per portare i ragazzi alla frontiera. Poi, appena sono in qualche campo fuori da Milano, li derubano e li lasciano lì.”

Lasciamo la signora augurandole buona fortuna. Andando via, chiediamo alla nostra amica volontaria quanti anni potesse avere: 40? 50? “Secondo me in realtà molti meno. Probabilmente ne aveva solo poco più di 30.”

“Avete visto il ragazzo con la polo bianca in piedi a poca distanza da loro? Probabilmente era un trafficante. Ce ne sono moltissimi, che provano ad adescare i migranti. La maggior parte sono egiziani.” Ci dirigiamo insieme a lei sotto gli alberelli a sinistra uscendo dalla stazione, proprio in mezzo alla piazza. Qui un gran numero di ragazzi di colore è sdraiato a cercare un po’ d’ombra ‒ l’afa è davvero feroce. Sembrano tutti inerti e passivi al tempo stesso.

Con loro, non c’è speranza di comunicare in inglese. Iniziamo a parlare con alcuni ragazzi, aiutati dalla nostra amica che traduce in arabo quello che diciamo. I ragazzi sono sudanesi e stanno cercando più o meno tutti di andare in Francia. Anche chi non parla direttamente con noi ci osserva, con uno sguardo un po’ spento. “Non fidatevi di tutti. Ci sono molti nordafricani che vogliono provare a fregarvi. Non accettate passaggi in macchina verso la frontiera.” Le cose dette sono sempre le stesse.

Poco dopo, contro ogni aspettativa, ci imbattiamo in un ragazzo dallo sguardo sveglio e i denti bianchissimi, che parla alla perfezione inglese.

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“Mi chiamo Abdul e ho 18 anni,” ci dice. “Sto andando in Francia a riunirmi con la mia famiglia. Sto aspettando che mi inviino da Parigi i soldi per il biglietto del treno.” In Sudan, a quanto pare, era ricco, o almeno benestante. “Avevo una macchina, una casa. Adesso sono qui e non ho niente.” Si guarda intorno, non ha le scarpe. Gliene servirebbero un paio numero 45. “Quando tutto sarà sistemato, voglio fare come voi e aiutare la gente nella mia situazione.”

Abdul è seduto vicino a un altro ragazzo sudanese. La nostra amica volontaria lo fissa, con un po’ di diffidenza. “È vestito troppo bene per essere un profugo” ci dice. “Guarda gli anelli, e l’orologio. Potrebbe essere un trafficante.” Poi si rivolge ad Abdul, e lo mette in guardia: non accettare per nessun motivo passaggi in macchina, ti portano in mezzo al nulla e ti rubano tutto quello che hai.

“Hanno una pistola?”
“Sì, qualche volta.”
Abdul deglutisce.

Ci salutiamo e ci scambiamo i contatti. Magari un giorno Abdul ci racconterà la sua storia di persona, quando sarà a Parigi e al sicuro. Arrivare in Francia in questi giorni non è affatto facile: alla frontiera di Ventimiglia ci sono stati scontri tra polizia e migranti, si rischia fortemente di essere bloccati anche sui treni regionali. “Però ci devono provare. Noi gli diamo tutte le informazioni per andare e li incoraggiamo, non cerchiamo di fermarli.”

Finora abbiamo parlato solamente con persone in transito, intenzionate a non fermarsi in Italia: per loro Milano è semplicemente una tappa prima del sospirato arrivo nel Nord Europa. Chi sono invece quelli che vogliono rimanere, che richiedono asilo e occupano per settimane un letto nei centri d’accoglienza?

Stiamo camminando sul piazzale quando la nostra amica volontaria ci indica un signore grassoccio che si aggira tra alcuni ragazzi afghani. “Quello è un trafficante,” ci dice. “Però non è cattivo, è stra–simpatico. Ci si può parlare. Io con gli afghani non riesco a comunicare, perché parlano solo farsi o i loro dialetti pashtu, niente arabo.”

In quel momento riconosce la nostra amica e ci viene incontro. È egiziano ma si fa capire anche in italiano. “Signora, questi afghani sono qui a dormire sulla piazza e un marocchino ieri li ha derubati.” È un soggetto bizzarro. Non riusciamo a non pensare che cerchi di lucrare sulla pelle di queste persone, ma non sembra cattivo. “Signora, li porti nel centro d’accoglienza, gli serve un letto.” I ragazzi afghani ‒ saranno una decina ‒ capiscono che sta succedendo qualcosa e in un attimo sono tutti intorno a noi.

Al gruppo di afghani con cui comunichiamo a fatica, si avvicina qualche interprete improvvisato. Tra loro anche il diciottenne sudanese dall’inglese accademico, la camicia perfetta e i denti bianchissimi che abbiamo incontrato poco prima.

Ognuno ha la propria storia, e sono tutte molto simili: giunti in Italia, hanno fatto richiesta d’asilo e sono stati sistemati in qualche centro d’accoglienza. Alcuni riferiscono di essere stati poi allontanati, altri parlano di condizioni di vita terribili, scarsità di cibo e igiene, cui hanno preferito la strada. Molti vagano nell’attesa di ritirare il permesso di soggiorno in Questura.

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Ijaz è uno dei molti. “I talebani stanno cercando di entrare in Pakistan passando attraverso le nostre terre, per reclutare uomini e conquistarle.” È così che decide di lasciare il Paese, e finisce in Italia.

Come la pallina nel flipper, Ijaz ha fatto la spola tra diversi centri di accoglienza milanesi, campi, SPRAR. Ci mostra l’ultimo documento ricevuto dalla Questura di Milano: finalmente il suo permesso di soggiorno è pronto. La notifica è arrivata il 22 giugno, a un mese dal ritiro fissato con appuntamento per il 22 di luglio. “Quando mi hanno consegnato questo documento, sono stato allontanato dal campo. Ma cosa dovrei fare mentre aspetto di ritirare il permesso di soggiorno? Sempre che tutto vada come deve andare…” racconta preoccupato, una mano appoggiata sul petto.

Ijaz viene dal Pakistan, “da una regione al confine con l’Afghanistan.” Come luogo di nascita, tuttavia, sul documento leggiamo un generico “Afghanistan.” Che equivale circa a un generico “laggiù.” Arrivato in Italia un anno fa, lascia qui le impronte e di conseguenza il progetto di raggiungere altri Paesi europei, più a Nord.

Ijaz ormai ce l’ha quasi fatta, ma non dimentica la condizione di chi come lui attende una possibilità, un futuro che non arriva. Si aggira per i giardinetti fuori dalla Stazione Centrale, lì dove sostano i ragazzi – cerca di aiutare come può, chiacchiera, posa il braccio attorno al collo di un giovane come lui. Si scambiano qualche parola che non capiamo, ma bastano l’espressione, lo sguardo basso e rassegnato.

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Decidiamo allora di formare un piccolo gruppo – circa 15 tra afghani, pakistani, iracheni. Ci dirigiamo insieme verso l’HUB di Via Sammartini 120, costeggiando in cordata la grande muraglia che divide la città dai binari in partenza da Centrale, attirando la curiosità dei passanti, che si fanno più radi man mano che ci avviciniamo al centro dove lavorano gli operatori dell’associazione ARCA – la stessa che forniva assistenza per gli arrivi in stazione la scorsa estate.

Parliamo con uno di loro, che ci chiede i documenti di cui sono in possesso i ragazzi: tutti hanno trascorso almeno un periodo, anche se breve, in un centro di accoglienza. Ne sono poi stati allontanati per disposizione della Prefettura, con un foglio generico che attesta la revoca e la cessazione dell’accoglienza. Come ci viene spiegato, questo può avvenire per diverse ragioni – in ogni caso, provvedimenti di tipo disciplinare. Per ognuno di loro, qualsiasi sia la colpa – dall’allontanamento momentaneo dal centro con mancato preavviso, alla scaramuccia per il pasto mancato e le scarpe bucate – non c’è nulla da fare.

“Provate ad andare al centro informazioni accanto alla stazione, lì vi daranno una lista dei centri d’accoglienza di Milano e dintorni. Provate a chiamarli tutti per vedere se c’è qualche posto. Ma al momento sono tutti pieni e sovraffollati.” Insomma, l’unica soluzione sembra essere la strada.

Con Ijaz scambiamo numeri di telefono e contatti – ha mal di denti, gli promettiamo di aiutarlo a trovare una clinica odontoiatrica che possa aiutarlo. Ci ringrazia, dice che pregherà per noi, stringe forte la mano. Ci fissa con due occhi che bucano il cuore.

Ijaz ha ora un appuntamento alla clinica odontoiatrica di Via della Commenda, a Milano. La visita è fissata per questo venerdì.

Forse è qualcosa, ma non è abbastanza.