Giorno 2: Salisburgo–Budapest

Il secondo giorno il ghiaccio non si è ancora rotto, ma inizia di sicuro a incrinarsi, scricchiola, l’euforia del movimento perpetuo comincia a farsi sentire.

Giorno 2: Salisburgo–Budapest

Giorno 2
Salisburgo – Budapest
via Vienna

Il secondo giorno il ghiaccio non si è ancora rotto, ma inizia di sicuro a incrinarsi, scricchiola, l’euforia del movimento perpetuo comincia a farsi sentire. Soprattutto quando si arriva a Budapest, e Budapest ti si scopre davanti agli occhi in tutta la sua gloria.

Ma andiamo con ordine.

A Budapest bisogna arrivarci, e il viaggio è degno di nota. Sembra un viaggio nel tempo, o semplicemente quello che è, un viaggio dall’Europa occidentale all’Europa orientale.

Sì, lo so, non sto parlando di Salisburgo. Ma di Salisburgo non c’è poi molto da dire. Avete presente le cartoline che la ritraggono? È proprio così. Graziosa, perfetta, ma non dice niente. O almeno, a me non dice niente, non si può dire che non sia bella. Forse l’ho trattata male, forse era il primo giorno, e il primo giorno, come ho già detto, è giorno di assestamento, di sviluppo interiore della condizione del viaggio. Una meta intermedia come Salisburgo, che non ti avviluppa, non ti dice “resta qui,” è in realtà l’inizio perfetto.

Perché poi arriva Budapest, e io ogni volta che metto piede a Budapest decido che mi ci voglio trasferire — ogni volta nel senso questa volta, e la volta scorsa, perché non è che ci venga spesso.

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A Budapest da Salisburgo ci sono arrivata cambiando il treno a Vienna. Da un treno austriaco sali su un treno ungherese, e lì subito ti rendi conto che la ricca, opulenta Europa occidentale te la stai lasciando alle spalle. Non sono un’esperta di arredamento di treni, ma sono abbastanza sicura che il vagone su cui sono salita abbia almeno una quarantina d’anni, come la divisa e il cappellino bordeaux sbiadito della signora bionda che spinge il carrello del caffè lungo il corridoio. Il tutto provato dal fatto che no, l’aria condizionata non c’è. Si muore di caldo. Due ore e mezza di treno affollato, con il sole che picchia forte, sono una sauna, e quando un ragazzo, esasperato, si è alzato ad aprire uno degli unici finestrini disponibili, l’abbiamo seriamente applaudito. Non sto scherzando. Non è cambiato molto, ma almeno è entrato dell’ossigeno.

La stazione di Budapest-Keleti è come tutta Budapest: costruita in un grandioso passato, tra il 1881 e il 1884 mi dice Wikipedia, come una delle stazioni più moderne d’Europa, ha incamerato decadenza e comunismo e da allora non si è più ammodernata. Le sale d’attesa, la biglietteria, i chioschi che vendono cibo e caffè ti fanno dimenticare di essere nel XXI secolo, in Europa. È bellissima.

Avverto, di Budapest canterò lodi esagerate, che neanche la più spudorata agenzia del turismo. La sua aria di grande capitale che cade a pezzi, dignitosamente, mi ricorda le meraviglie di Napoli o di Palermo. Ma Budapest è più viva, brulica di attività, di giovani, di iniziative: in ogni angolo di strada, in ogni palazzo in rovina si annida un bar, una discoteca, una galleria d’arte, spesso tutte e tre le cose insieme. E quando arrivi al fiume che è quasi notte, è un trionfo di luci e palazzi maestosi illuminati, parrebbe, a festa.

Comunque, andiamo con ordine ho detto, anche se non sto andando con ordine per niente.

Budapest è una grande città, e soprattutto non è l’Austria, dove la gente ha paura di disturbarti anche guardandoti per due secondi più del necessario. Il che vuol dire che se ti fermi un attimo fuori dalla stazione, con i tuoi zaini e tutto il resto, a consultare una cartina, attiri immediatamente almeno un paio di rompicoglioni, scusatemi il termine, che vogliono assolutamente attirare la tua attenzione. Vogliono attirare la tua attenzione con l’unico scopo di darti fastidio, perché in qualche modo tu hai attirato la loro, di attenzione, e non possono sopportare, a quel punto, di passare inosservati. Ti ho notata e allora tu devi notare me, e se non mi dai corda mi arrabbio pure. Come ti permetti, ragazzina, di non darmi corda? E’ un atteggiamento che mi è, ahimè, abbastanza familiare, al che, al terzo arrogante Hey lady ho preso, ho chiuso la cartina e ho fatto quello che tutte le donne del mondo fanno, probabilmente, da secoli, e me ne sono andata. La cartina meglio consultarla dove non attiri attenzione e conseguenti disturbatori.

L’ostello che ho prenotato per la notte non è quello che mi aspettavo. Non è un ostello, innanzitutto, ma una guesthouse che sembra anch’essa d’altri tempi. Helena Guesthouse si chiama. Mi apre la porta Helena, minuscola signora di anni 73, avvolta in una vestaglia rosa, che si fa aria con un ventaglio dello stesso colore e si lamenta del caldo. O almeno, penso che si stia lamentando del caldo, visto che parla principalmente in ungherese.

Come prima cosa mi presenta il suo cane. È importante avere le priorità al posto giusto. Dopo che l’ho accarezzato e vezzeggiato al punto giusto mi guarda con approvazione, ho superato la prima prova, e mi mostra il mio letto.

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Per i successivi quaranta minuti la signora mi parla ininterrottamente, in un affascinante miscuglio di inglese e ungherese, e io non capisco assolutamente niente. Sorrido e annuisco. Apre una cartina e sbrigativamente cerchia con una penna le attrazioni principali della città, poi indica gli altri due letti occupati, facendomi capire che in uno dorme un irlandese e nell’altro un signore polacco. “Good man,” dice, “Third time he comes.” Mi spiega come aprire il portone d’ingresso e mi passa un codice su un foglio di carta. “You have phone” aggiunge, “You take picture,” che poi sennò lo perdo e insomma, ha già capito come funziono.

Sono deliziata.