Siamo una delle prime generazioni a sentirsi effettivamente europea, eppure l’Europa è instabile sotto i nostri piedi e non ci dà più certezze. Oggi noi donne beneficiamo dell’emancipazione per cui hanno combattuto le nostre madri e le nostre nonne, eppure non è ancora abbastanza, e una ragazza che viaggia da sola viene guardata con stupore. Stupore, apprensione, ammirazione, dubbio, preoccupazione, entusiasmo: le varie reazioni a cui mi sono trovata davanti quando ho detto di voler fare un giro dell’Europa, di un mese, in Interrail, da sola.
Da sola, sola, solissima? Sei proprio convinta? Sì, sono proprio convinta.
Farai attenzione? Ovvio che farò attenzione. Anche se è inutile, questa domanda, considerando che da ventenne che vive in una grande città faccio sempre e comunque attenzione, a dove metto i piedi, a chi cammina dietro di me, a chi cammina davanti a me.
È proprio per il sottofondo di allarme costante che consiglia di non uscire dai confini della comfort zone, e al quale mi rifiuto di cedere, che ho deciso di viaggiare da sola.
Sono una ragazza, ho 23 anni, un biglietto di un mese per l’Interrail, due zaini e delle scarpe comode. E nei prossimi giorni voglio scoprire com’è viaggiare in Europa ora che l’Unione vacilla. Voglio scoprire come ci si sente a viaggiare da sola, e voglio raccontarlo.
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Milano–Salisburgo
GIORNO 1
Milano–Salisburgo
via Lugano, Arth-Goldau, Zurigo
Il primo giorno è sempre un giorno di assestamento, soprattutto il primo giorno di un viaggio da backpacker, come si dice in inglese. Dove per backpackers si intendono quegli individui, solitamente giovani – e se non sono giovani sono solitamente nordici – che si aggirano barcollando sotto il peso di mastodontici zaini da trekking dai quali penzolano o spuntano, a seconda dell’area geografica, costumi da bagno, scarpe da tennis, girandole colorate, materassini, tende, asciugamani, sacchi a pelo. Si incontrano soprattutto nelle stazioni quando è periodo di Interrail, e negli ostelli, e nelle vie che dalle stazioni portano agli ostelli, e si scambiamo tra loro sguardi di reciproco riconoscimento e compatimento. Lo zaino pesa. Un sacco. Soprattutto il primo giorno, quando le spalle si devono abituare e si indolenziscono, non si sa ancora bene qual è l’angolazione migliore da assumere con la schiena e i piedi iniziano a fare male e a minacciare vesciche. Perché non importa con quanta premura tu abbia scelto le scarpe comode da portare, le vesciche vengono sempre: è una delle tante leggi del viaggio in Interrail.
Il corpo, dunque, durante il primo giorno si deve assestare allo zaino, e allo zaino bisogna assestare anche la mentalità. Non si è ancora bene inseriti nelle dinamiche di viaggio, ci si dimentica dettagli fondamentali come lasciare il golf in superficie e ci si ritrova in mezzo all’aria condizionata feroce di un treno qualsiasi a smontare tutto il bagaglio, estrarre accappatoio, ciabatte, beauty case, giacche a vento e quant’altro alla ricerca del golf maledetto, che ovviamente è proprio in fondo in fondo e non si può recuperare in altro modo, davanti agli sguardi a metà tra il perplesso e il divertito degli altri passeggeri. Per poi ricacciare dentro tutto il più velocemente possibile e anche stavolta è andata così, l’ordine sopraffino con cui avevi arrotolato ogni singola maglietta è andato a quel paese dopo neanche cinque ore. Ma va bene, la prossima volta ci si ricorda, e bisogna essere clementi con se stessi: il primo giorno è un giorno di assestamento.
Ci si assesta anche ai luoghi pubblici. È il terzo Interrail che faccio, anche se è la prima volta che mi avventuro da sola, e so che, quando per un mese passi più tempo su treni che altrove, è inevitabile appropriarsi dei luoghi pubblici. Alla fine ci si muove tra biglietterie e binari con l’agio con cui di solito ci si muove nelle stanze di casa propria. Ci si lava, cambia, trucca e pettina nei bagni che capitano, che siano del McDonald’s o della stazione, si impara con agilità da equilibrista ad applicare il mascara su un treno in movimento (non è vero, questa è una bugia, si prova ad applicare il mascara su un treno in movimento per i primi cinque giorni, non ci si riesce, e poi si smette definitivamente di pensare al mascara, che tanto nel disagio generale dell’apparenza da viaggiatrice nessuno noterà mai quanto lunghe sono le tue ciglia). Ma ho notato, oggi, che quando si è in gruppo, o in due, comunque non da soli, è molto più facile appropriarsi dei luoghi pubblici. Ci si muove in branco o in coppia e ci si chiude nell’esperienza di viaggio comune, immune agli sguardi esterni. Quando sei da sola, questo non succede.
Da sola gli sguardi esterni li noti tutti, sei ipersensibile a quello che ti succede intorno, e soprattutto attiri curiosità mentre ti muovi goffamente tra i sedili del treno con i tuoi zaini, i tuoi marsupi, le tue borse e i tuoi mille documenti in mano.
Non sono molte le ragazze che viaggiano da sole. Oltre a me, oggi, ne ho incontrata una soltanto, che mangiava patatine in riva al fiume a Salisburgo, e poi che leggeva un libro su una panchina al parco. L’ho guardata come amica. In queste situazioni, solidarietà e simpatia vengono facili.
La mia solitudine oggi non ha attirato solo sguardi curiosi, ma anche diverse persone che hanno voluto aiutarmi. La gente ti vede sola, ti osserva, poi decide di prenderti in simpatia e ti adotta, per cinque minuti o due ore, non importa.
Oggi, nonostante sia il primo giorno, il giorno di assestamento, o forse proprio per quello, di aiutanti ne ho acquistati quattro.
La prima è stata una signora silenziosa sul treno da Zurigo a Salisburgo. Lei non parlava inglese, io non parlo tedesco, la comunicazione era evidentemente difficile. Tuttavia, forse intenerita dai miei tentativi di trovare la posizione perfetta per dormire, arcuata sullo zaino e poi con la testa sul tavolino, e poi riversa all’indietro ma non va bene che poi dormi a bocca aperta e che vergogna (farò un post, in futuro, sull’arte di dormire sui treni) ha deciso di prendersi cura di me per quelle tre ore di viaggio che avevamo in comune. Prima, timidamente, ha iniziato a darmi indicazioni – a gesti – su dove posizionare tutto il mio bagaglio per stare più comoda, dopo mi ha offerto il suo golf e infine ha preso la situazione in mano e ha deciso di comunicare lei per me con il controllore perché nessuno dovesse disturbarsi a parlare in inglese.
Dopo di lei sono venuti i due camerieri del bar dove, all’alba delle dieci di sera, quando a Salisburgo tutto quello che vende cibo è chiuso, mi sono finalmente decisa a mangiare. Lei, biondissima, ha preso a cuore la mia celiachia e mi ha letto tutto il menù premurosamente, gettandomi di tanto in tanto occhiate apprensive per vedere se c’era qualcosa che mi sarebbe potuto andare bene. Lui, della Georgia, ha deciso che non si poteva lasciarmi mangiare da sola ed è venuto a raccontarmi che in Italia c’è una grandissima comunità di persone che vengono dalla Georgia – lo sapevate, voi? Perché io no – perché insomma, l’Italia è bellissima e loro sanno apprezzare le cose belle.
L’ultimo è il barista dell’ostello, dove sono seduta a scrivere e bere vino, che ogni volta che finisco il bicchiere arriva immediatamente a chiedermi se ne voglio altro, di vino, se ho bisogno di qualcosa, se sto bene. Magari ci sta provando, magari vuole farmi spendere, mi piace pensare che sia solo gentile.
Questi i pensieri, insomma, della mia prima giornata di viaggio in solitaria.
Di Salisburgo non ho molto da dire: è bellissima, davvero; è piccola, ma sono riuscita a perdermi comunque, (due volte, nonostante la cartina), non che ci sia da sorprendersi; tutto chiude alle otto, al supermercato voi andateci prima, ora che vi ho avvertito; suonano concerti gratuiti in giro, senza che ve lo aspettiate, tipo in un parco pieno di fiori, niente male. Ma domani la vedrò meglio con la luce del mattino.