Le donne della diossina
Segue. Il 10 luglio 1976, della diossina si sapeva poco. Si ipotizzava tuttavia che si trattasse di una sostanza altamente teratogena: per le donne in gravidanza esposte al veleno in seguito alla fuoriuscita di TCDD dall’impianto dell’ICMESA, il rischio di incorrere in gravi malformazioni fetali era considerato reale. Nonostante all’epoca dell’incidente in Italia la pratica dell’aborto costituisse reato – fatte salve alcune deroghe concesse dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 27 del 1975, nelle quali in ogni caso non rientrava il caso delle ipotetiche malformazioni ai feti – il 7 agosto 1976 due esponenti democristiani, l’allora Ministro della Sanità Luciano Dal Falco e quello della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, ottenuto il consenso del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, autorizzarono l’aborto terapeutico per le donne della zona di Seveso e dei paesi limitrofi.
All’epoca, comunque, la battaglia più aspra si era consumata sui media, oltre che alle porte delle cliniche in cui venivano effettuati gli aborti, dove erano sempre accese le manifestazioni di protesta. Quasi tutti i giornali non avevano esitato a schierarsi: sull’Avanti! del 5 agosto 1976 era infatti apparsa la lettera aperta al Presidente del Consiglio firmata da alcune deputate, tra cui Maria Magnani Noya (PSI), Luciana Castellina (DP), Susanna Agnelli (PRI) e naturalmente Emma Bonino (PR) in cui si chiedeva che alle donne di Seveso – contaminate dalla diossina, i cui feti erano a rischio malformazioni – fosse concesso l’aborto terapeutico. La Bonino era peraltro già nota sia all’opinione pubblica che alle autorità per il recente e chiacchierato esordio sulla scena politica italiana, ovvero la campagna intrapresa nello stesso anno, solo qualche mese prima dell’incidente del 10 luglio, per la legalizzazione dell’aborto: era infatti fine giugno quando – a seguito di accuse e mesi di latitanza – si era consegnata e costituita alle forze dell’ordine per il delitto di procurato aborto, dopo aver votato in un seggio elettorale del Comune di Bra (Cuneo), davanti a una folla di elettori e giornalisti.
Gli “aborti della diossina”, comunque, furono praticati in parte presso la clinica Mangiagalli di Milano, in parte presso i vicini ospedali di Desio e Seregno. Al termine delle operazioni, i feti vennero trasferiti in Germania, a Lipsia, dove furono analizzati e studiati. Ma gli esiti di laboratorio, giunti un anno dopo, non avrebbero sciolto né dubbi, né polemica: pur non essendoci evidenti segni di malformazioni, non era stato possibile stabilire se queste si sarebbero sviluppate e presentate dopo la nascita o con la crescita, poiché “alcune anomalie congenite – in particolare quelle minori e a carico di organi specifici, come il cervello – non sono identificabili nelle prime fasi di sviluppo fetale”. Inoltre, le conclusioni che si potevano trarre da quegli studi dovevano tener conto del campione numericamente poco significativo dei casi studiati; del fatto che gli embrioni analizzati erano di diversa età e in differenti fasi di sviluppo; del fatto che nella maggior parte dei casi l’embrione non era integro.
Dopo l’incidente, non furono poi molte le donne a scegliere l’aborto. Alcune portarono a termine le loro gravidanze senza incorrere in particolari problemi o complicazioni, e i figli non mostrarono segni di malformazioni evidenti. Ma – come raccontato da alcune donne che l’hanno vissuto – il bombardamento mediatico, nonché le pressioni da parte delle famiglie in un’area profondamente cattolica, e più di tutto il fatto che nessuno pareva avere informazioni certe sugli effetti del contatto con la diossina sul lungo periodo furono tutti fattori che contribuirono a creare il clima di paura e incertezza che rese estremamente difficile prendere una decisione ragionata, consapevole, indipendente. In quei giorni, sul Giornale di Indro Montanelli si leggeva: “Il rischio è per i bambini, non per la madre: si tratta di aborto eugenetico, e non terapeutico”. E ancora, gli appelli controversi del cardinale di Milano Giovanni Colombo, che tanto fecero discutere: “Non uccidete i vostri figli, le famiglie cattoliche sono pronte a prendersi cura di eventuali bambini handicappati”.
La Legge 194 del 22 maggio 1978 non era lontana, e il dibattito sulla necessità di una norma che regolamentasse l’aborto si era fatto in quegli anni sempre più vivo.
Tuttavia i fatti della diossina l’avevano riportato prepotentemente sulle prime pagine dei quotidiani, ora carico del dramma presente – l’incidente, la contaminazione – e della minaccia di quello futuro – le possibili malformazioni fetali.
Oltre alle donne incinte, bisognava pensare anche a chi i figli li aveva già, e non poteva naturalmente restare nella zona infetta, nonostante il ritardo nella diffusione delle informazioni riguardo l’incidente e il pericolo dell’avvelenamento da diossina avessero già determinato la contaminazione. Molte famiglie furono evacuate e trasferite a Milano, soprattutto nella zona di Bruzzano; alcune finirono in camere d’albergo; i bambini, quando possibile, nelle colonie.
“Eravamo una famiglia di cinque persone, noi. Una bella mattina è arrivato l’esercito, ci hanno portato in un motel. Non saremmo mai potuti tornare nella nostra casa e lo sapevamo” racconta Marco (nome fittizio, preferisce rimanere anonimo). “Fino al giorno prima mangiavamo l’insalata, noi: l’insalata del nostro orto, che cresceva rigoglioso davanti all’ICMESA – più rigoglioso degli altri. Siamo stati lì 10 giorni a mangiare diossina, mentre i criminali decidevano cosa fare delle nostre vite, dei loro soldi, dei loro affari, della loro reputazione – non in quest’ordine”.
Dopo il motel, è stata la volta dell’ex ospedale psichiatrico: “Ci hanno lasciati in mezzo ai matti per qualche mese, ad aspettare i genitori, che vedevamo solo nel weekend. Girava voce che volessero far sparire tutti i bambini di Seveso: non dico fosse vero, ma un bambino, da solo così, ha paura”. Oggi Marco ha 45 anni. È ancora sotto osservazione: si reca periodicamente in ospedale per analisi ed esami del sangue. “Voltare pagina? No, non è possibile. Mai del tutto. In fondo, quel che abbiamo passato lo sappiamo solo noi: alcuni, i meno fortunati, ne portano ancora i segni in volto, conseguenza della cloracne. Ma anche se non si vede, la diossina ce l’abbiamo dentro. Tutti”.
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