Il cinema è una forma espressiva in continuo mutamento sia artistico che tecnico. Dal procedimento di imbibizione e viraggio per la colorazione delle pellicole al più recente passaggio al digitale, la settima arte ha sempre assistito all’applicazione delle nuove scoperte tecnologiche sul suo sviluppo. Fra tutte le innovazioni introdotte nell’industria cinematografica una in particolare risulta fondamentale: il suono.

René Clair, uno dei più importanti registi francesi del Novecento, apriva così un articolo dal titolo The art of sound: “London, May 1929. Today there is no individual, no company, no financial coalition capable of stopping the triumphant march of the talking film. The industrialists of the American cinema maintain that the public has clearly manifested its liking for talkies, and that they have done no more than meet the public’s wishes”.

Opponendo ai movies l’inarrestabile ascesa dei talkies, René Clair prosegue elogiando i pregi tecnici della nuova scoperta, ma anche criticandone l’uso frivolo e puramente estetico che ne veniva fatto: “We do not need to hear the sound of clapping if we can see the clapping hands. When the time of these obvious and unnecessary effects will have passed, the more gifted filmmakers will probably apply to sound films the lesson Chaplin taught in the silent films, when, for example, he suggested the arrival of a train by the shadows of carriages passing across a face”.
Concludendo il suo articolo con una nota fin troppo amara: “Through such ‘progressive’ means the screen has lost more than it has gained. It has conquered the world of voices, but it has lost the world of dreams”.

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Lasciato trascorrere il periodo di intransigenze verso la nuova rivoluzione tecnica, sarà proprio René Clair – nel 1930 – a girare la poetica introduzione di Sous les toit de Paris, inquadrando i canti di un coro parigino della periferia. La scena riconciliava i nuovi suoni del cinema con le immagini tanto care al regista. Le note tra i vapori dei tetti della città francese non erano unnecessary effects, ma rappresentavano il desiderio di trasformare ogni nuova scoperta tecnica in una forma d’arte. È infatti compito dell’artista prendere la tecnica e farne poesia, piegarla al proprio volere per descrivere le sfumature della vita nel modo desiderato. L’audio, in questo contesto, si rivelò un elemento essenziale per raccontare lo spirito di cambiamento del cinema di inizio Novecento.

La storia del cinema è piena di registi, direttori della fotografia, addetti ai lavori che hanno rivoluzionato il modo di fare e pensare la settima arte. Dalle teorie del montaggio di Sergej Ėjzenštejn alla steadicam di Garret Brown e Stanley Kubrick la lista è lunga, ma tra tutti un nome risuona per importanza. È quello di Robert Altman che dell’audio e del suono fece il tratto distintivo delle sue pellicole.

Cresciuto nello stretto mondo del piccolo schermo, il regista americano diventò ben presto la pecora nera di Hollywood, amato dal pubblico e odiato dai produttori. Disse a fine carriera: “Ciò che ho imparato negli ultimi 35/40 anni è che io faccio guanti, ma loro vendono scarpe”.


Con M*A*S*H – primo film di successo – Altman introduce un elemento che diventerà il segno stilistico delle sue storie: i dialoghi sovrapposti, meglio conosciuti come overlapping dialogues. La pellicola, che racconta le vicende dei soldati di un ospedale militare durante la guerra in Corea (evidente allegoria alla guerra del Vietnam di quegli anni), aveva la necessità di rappresentare il mimetismo e la coralità di quella situazione. Egli decide di adottare un approccio che lo farà passare alla storia come un regista di attori (actor’s director), lascia libero sfogo alla recitazione dei suoi interpreti, creando in molte scene un coro di voci, amplificando così il senso del reale di ogni scena.

In un’intervista al Dick Cavett Show il cineasta affermava che il medium cinematografico non era stato ancora esplorato del tutto. Con questo spirito ai limiti del pionieristico, nel 1975 dirige il monumentale Nashville, dedica un po’ malinconica all’industria musicale statunitense e al contempo aspra critica verso la sua politica. Con quest’opera Altman eleva ancora l’asticella tecnica dell’epoca, integrando, oltre agli overlapping dialogues, la rappresentazione di live all’interno della narrazione. Come scrive Stephen Deusner nell’articolo di Pitchfork sulla pellicola: “In films like MASH and The Long Goodbye, Altman toyed with cast, often assigning roles counterintuitively and letting the actors improvise their own dialogue. In 1975, Nashville appeared to take that strategy even further by letting the actors devise their own music”.

Alcuni l’hanno definito un timido voyeur, altri un democratico dei dialoghi, era tutto questo e nulla di tutto questo, uno splendido burlone pronto a sfidare le convenzioni per dimostrare che qualcosa di nuovo era ancora possibile.

Come era solito raccontare, i film sono come un castello di sabbia: li costruisci poi la marea li porta via e rimangono solo nel tuo immaginario.

 

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