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Nella nuova stagione di Camera Cafè i personaggi cinesi sono ridicolizzati attraverso i soliti stereotipi razzisti, nel quadro di una televisione italiana ancora completamente sorda al multiculturalismo.

Da settembre sta andando in onda su Rai 2 la nuova stagione di Camera Cafè. Recuperata dal cassetto con una classica operazione nostalgia dopo cinque anni di assenza dagli schermi, la sitcom di culto, un tempo di Italia 1, ha ricevuto perlopiù critiche positive: su Wired è stato scritto che “Camera Cafè ha la grandissima occasione di diventare qualcosa di più di un semplice intermezzo tra il tg e la prima serata, ma un vero strumento di narrazione sociale.” Su Linkiesta: “Camera Cafè è tornato, è bello, ed è meglio della monnezza che gira intorno.”

Il motore narrativo che dà avvio alla nuova stagione è l’acquisizione, da parte di una grande multinazionale cinese, dell’azienda “generica” in cui lavorano i protagonisti. A segnalare anche visivamente il cambio dei tempi, su una delle pareti dell’area relax campeggia ora un quadro con due ideogrammi cinesi (飞蛋, Feidàn, il nome della nuova casa madre). Sullo sfondo, un secondo orologio segna il fuso orario di Pechino accanto a quello di Roma.

I vecchi personaggi sono chiamati a confrontarsi con i nuovi arrivati dal lontano Oriente, e in molte puntate la comicità si basa proprio sugli effetti macchiettistici di questo improbabile incontro culturale. Ma in che modo?

Già dalle puntate numero due e tre ci si può fare un’idea complessiva dell’immagine del “cinese” che traspare da Camera Cafè: imperscrutabile, tendenzialmente duro di comprendonio, ma economicamente superiore in virtù di una forza misteriosa a cui, sotto sotto, non si riconoscono meriti reali. Non è un’immagine molto diversa, insomma, da quella che oggi, in Occidente, abbiamo della Cina stessa.

“Ma lo vuoi capire che ora comandano loro?”

Gli autori di Camera Cafè pescano a piene mani da un dizionario di luoghi comuni stantii, e àncorano a queste percezioni ridigerite i propri personaggi asiatici. Spesso con esiti sgradevoli, che non sarebbero accettabili se riferiti a gruppi etnico-culturali storicamente almeno in parte emancipati — esempio: vediamo Paolo tirarsi gli angoli degli occhi con le dita mentre squittisce monosillabi cinesi inventati, proviamo a immaginarcelo con la faccia annerita di fuliggine a dire “zì badrone,” come si usava negli avanspettacoli di primo Novecento.

Nella terza puntata, forse quella più rappresentativa in questo senso, Luca e Paolo sono alle prese con Lin, la moglie sguaiata e volgarotta del super capo cinese, che si dice fan dei Pooh ma ne storpia inspiegabilmente tutte le canzoni (perché dovrebbe dire minuscola Betty al posto di piccola Katy? Perché è cinese? Mistero). Essendo però la moglie di un miliardario, oltre che padrone dell’azienda, i poveri italiani, incluso Roby Facchinetti, sono costretti ad adeguarsi. Con lo stesso tipo di risentimento malcelato con cui i tifosi del Milan e dell’Inter, lo scorso aprile, si sono adeguati ad assistere al primo derby giocato alle 12.30 per essere guardabile anche dal pubblico cinese.

 

La puntata I Replicanti ruota invece attorno a un’altra generalizzazione radicata: la presunta abilità dei cinesi nel copiare ogni cosa. Così, Luca e Paolo scoprono con orrore che c’è un’esatta copia cinese di tutti gli impiegati dell’azienda. Tra gli interpreti c’è anche l’attore Shi Yang Shi, cinese naturalizzato italiano, già noto al pubblico televisivo soprattutto per la sua partecipazione alle Iene, ma molto impegnato sia in teatro che al cinema.

Al centro della propria attività artistica — ma, prima ancora, nel ruolo di traduttore e mediatore culturale — Shi Yang colloca proprio il tema difficile della “doppia identità,” cinese e italiana, cercando di gettare un ponte tra le due culture. Disinvolto con entrambe le lingue, si è dedicato al teatro di impegno civile insieme alla regista Cristina Pezzoli, con la Compagnia Compost di Prato. Il loro spettacolo “ArleChino – Traditore e traduttore di due padroni” — in origine “Tong-Men-G” — tornerà in scena a Milano dall’1 al 3 dicembre al teatro Verdi.

“Gli stereotipi sono un’arma a doppio taglio,” mi dice Shi Yang di fronte a una birra in un piccolo bar in zona Loreto. “Da artista, ti dico: meno male che esistono gli stereotipi! Bisogna giocarci, prendendo le distanze da qualsiasi ideologia, perché l’arte non è al servizio dell’ideologia. Dopotutto, noi artisti ci prestiamo a fare delle maschere stereotipate per far ridere di qualcosa di cui la gente ha paura.”

“Anche nei miei servizi per le Iene ho sposato lo stereotipo del cinese stupido e puerile, e per questo sono stato criticato anche da alcuni cinesi. Ma ho accettato di fare quella puntata di Camera Cafè perché penso abbia toccato un nervo scoperto del racconto dell’italiano rispetto ai suoi nuovi ‘vicini di casa’: in quel pezzo alla fine si scopre che gli stranieri sono uguali a te, sono copie di te — quindi sono te.”

https://youtu.be/hdXwPZBzxp4?t=2m44s

D’altra parte, soprattutto in televisione, è molto difficile per gli attori cinesi trovare parti che non siano stereotipate. “I cinesi in Italia sono potenti a livello economico, ma non a livello culturale e politico. In Francia un mio punto di riferimento in questo senso è Omar Sy, l’attore di Quasi Amici.

Yang ha appena pubblicato con Mondadori Cuore di seta, un libro in cui racconta la sua storia, dall’infanzia nella città natale di Jinan all’adolescenza e prima giovinezza in Italia, dov’è arrivato all’età di undici anni. “È un libro amaro e dolce allo stesso tempo: c’è il mio coming out, le mie prime esperienze rispetto alla sessualità e rispetto al fallimento — che è una componente molto importante per chi vuole fare comicità. Scriverlo mi ha aiutato a uscire dalla prigionia della mia doppia discriminabilità, la mia doppia vulnerabilità come cinese e come omosessuale ”

 

978880467402higMa la realizzazione macchiettistica dello straniero non è ovviamente soltanto un problema della televisione italiana. Di recente, Ann-Derrick Gaillot ha messo in evidenza su The Outline come anche programmi televisivi percepiti come “progressisti” nascondano una sottile xenofobia, in personaggi la cui comicità è in gran parte o interamente basata su caratteristiche etniche — in primis l’accento. Per esempio Jian-Yang, il programmatore cinese di Silicon Valley, dipinto a volte come malevolmente furbo, a volte come irrimediabilmente stupido, ma sempre, e in ogni caso, entro “le stesse piccole scatole in cui la società ha confinato gli asiatici per secoli,” come ha scritto a proposito Inkoo Kang su Wired.

“Gli stereotipi non sono mai neutrali o del tutto innocui,” sostiene la professoressa Alessandra Lavagnino, direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. “Rassicurano, ti permettono di non studiare e di non assumerti le responsabilità di un dialogo. Scherzare è facile: te la cavi con una risata ed è tutto finito. Ma queste sono cose su cui sarebbero necessari lavori approfonditi, non goliardate.”

L’Istituto Confucio si occupa da anni di promuovere la lingua e la cultura cinese a livello accademico, con un occhio sempre rivolto al dialogo interculturale, attraverso l’organizzazione di spettacoli, mostre, incontri, conferenze. Decostruendo gli stereotipi “mattoncino per mattoncino.”

“Io mi occupo di Cina da tanto tempo,” continua la professoressa. “Quando si è iniziato a parlare dei cinesi, non si parlava mai dei cinesi, ma sempre dei cinesini. Oggi il cinesino ha lasciato il posto al cinese ricco e misterioso che si compra tutto, enigmatico e minaccioso.”

Ma è comunque uno stereotipo che viene da lontano. “L’abbiamo ereditato dalla cultura anglosassone, soprattutto americana. Il personaggio chiave è Charlie Chan, il detective cinese, scritto da uno che la Cina non la conosceva affatto: fittizia, inventata. Poi, dopo il 1949, c’è stata tutta un’operazione cinematografica in cui il cinese rappresenta, semplicemente, il male.”

Molte di queste immagini, radicate nella percezione collettiva occidentale, sono raccolte da Fabio Giovannini nel libro Musi gialli, uscito per la collana Eretica di Stampa alternativa nel 2011, che spiega come dietro il meccanismo di derisione e di delegittimazione si nasconda la fobia di una quadruplice minaccia: economica, demografica, militare e culturale. “Da quasi due secoli il Pericolo giallo è regolarmente presente nel nostro immaginario sociale e antropologico. Abbiamo la sensazione di essere minacciati da razze inferiori e ‘inassimilabili.’ Temiamo che gli asiatici possano sopraffare i bianchi e dominare il mondo,” scrive Giovannini dell’introduzione.

La cultura pop, nei suoi livelli più bassi, continua a perpetuare quest’immaginario invece di provare a spezzarlo. “C’è un passo in meno, che dev’essere ancora fatto,” continua Shi Yang. “Mancano prodotti culturali in cui lo stereotipo sia spiazzante ma ti faccia anche riflettere, e i media sono lenti a raccontare i cinesi di seconda generazione per quello che già siamo fuori. Ma su YouTube, per esempio, ho notato che stanno emergendo dei giovani youtuber con delle proprie maschere, che spesso usano gli stereotipi all’incontrario.”

Uno di questi è EmaaX, nome d’arte di Emanuele Xu, che ha diciannove anni e più di 50 mila follower su Facebook. Nei suoi brevi video comici gioca con il contrasto tra il suo aspetto e il suo modo di parlare — in napoletano, senza la minima inflessione cinese.

“Non possono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati.” È la famosa citazione di Karl Marx posta in esergo a Orientalismo di Edward Said. Mentre la televisione italiana resta ancora compattamente monoculturale — e quando cerca di non esserlo si scatena il solito razzismo becero — i giovani immigrati di seconda generazione sono pronti a raccontare una realtà profondamente mutata, e lo fanno con la propria voce originale, senza bisogno della mediazione di un contenitore etnico precostituito.