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Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni giovani credenti e non credenti che hanno deciso di non seguire la pratica del digiuno.

Il mese di Ramadan mette a dura prova la libertà di coscienza dei fattara — coloro che, musulmani o non credenti, decidono di non seguire la pratica del digiuno, uno dei cinque pilastri dell’Islam, assieme alla professione di fede, la preghiera, l’elargizione dell’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca. Per i fedeli il Ramadan è un mese sacro di purificazione e di astensione, non solo dal cibo, ma anche dai rapporti sessuali, dal male, dai cattivi pensieri, nel quale si intensificano la meditazione e la preghiera.

In alcuni paesi musulmani il mancato rispetto del digiuno nei luoghi pubblici può essere sanzionato penalmente, in quanto ritenuto oltraggio pubblico al pudore.

Si è intensificato, secondo il Collettivo tunisino per la difesa delle libertà individuali, il clima di intolleranza nei confronti dei “non digiunatori” nella regione del Maghreb. Alle manifestazioni pubbliche di dissenso seguono repressioni e intimidazioni, affiancate dalla pressione moralizzatrice della società.

Tradizione e repressione

In Tunisia, ritenuto il paese più liberale dell’area, non esiste alcuna legge che vieti al cittadino di non osservare il digiuno in pubblico durante il Ramadan, e le serrande mezze abbassate dei caffé e dei ristoranti proteggono i fattara dagli sguardi inquisitori. Gli internauti inoltre facilitano la ricerca dei luoghi aperti segnalandoli su facebook. Eppure non sono mancati, negli ultimi anni, episodi di “caccia ai fattara” e di minacce nei confronti dei ristoratori che decidono di non sospendere il servizio durante la giornata, violando così la libertà di coscienza e del libero esercizio del culto sancita dalla Costituzione del 2014.

La legge in Algeria, invece, è molto ambigua. Secondo l’articolo 144 2 bis del codice penale algerino chiunque “rechi offesa al Profeta e agli inviati di Dio o denigri i dogmi o precetti dell’Islam” può incorrere in una pena che va dai da 3 a 5 anni e/o un’ammenda da 50.000 a 100.000 DA. Nell’articolo non esiste dunque un chiaro riferimento al digiuno. Diverso è il caso del Marocco, il cui codice penale punisce – da 1 a 6 mesi, più ammenda – chiunque appartenga alla fede musulmana e rompa il digiuno in luogo pubblico senza un motivo legittimato dalla religione. Resta comunque discrezione del giudice decidere la pena.

Cresce l’esigenza di rimettere in discussione i precetti religiosi e di rompere il silenzio che da sempre avvolge i tabù delle società arabo-musulmane, esigenza anche di chi vive lontano dal proprio paese d’origine.

Ma lo spazio di discussione in realtà, anche in Italia, non è ancora uscito dai confini del virtuale, dove i giovani di seconda generazione si esprimono molto più liberamente di quanto non possano o vogliano fare in famiglia o nella propria comunità.

Nella complessità ed eterogeneità del mondo islamico, non dovrebbe sorprendere l’esistenza di individui che potrebbero essere definiti musulmani non praticanti, ma pur sempre credenti, e di coloro che nascono sì da genitori musulmani, ma non acquisiscono – o perdono in seguito – la fede.

Al fine di raccontare queste diversità, spesso difficili da accettare, ho raccolto alcune testimonianze di credenti e non credenti che hanno deciso di non seguire la pratica del digiuno.

(Nomi e ritratti sono di fantasia, ndr)

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Fatma, italo-egiziana

Io non digiuno da 4 anni, da quando ho deciso di dire ai miei genitori che non credo nell’Islam, un percorso che mi ha anche portata a togliermi il velo indossato in prima superiore. Digiunare durante Ramadan per me era più una tradizione che fede: lo facevano i miei e quindi anche io. Inizialmente non hanno preso bene la notizia, ma cosa potevano farci? Sapevano che avrei potuto mangiare di nascosto, non potevano impormi il digiuno; ci hanno dovuto far l’abitudine, anche se per loro scelta i miei parenti in Egitto non sanno di tutto questo, ad eccezione del velo.

Quando ho iniziato ad astenermi dal digiuno indossavo ancora il velo. Mi sentivo un po’ contraddittoria, una ragazza velata (dunque praticante) che mangia nel mese di Ramadan. Mi sono tolta un peso quando sono riuscita a togliermelo. È una mia decisione libera e consapevole, non mi interessa in alcun modo il parere degli altri.

Enkeleda, italo-albanese

Io sono musulmana, fortemente credente, ma non seguo il digiuno. La mia famiglia mi ha sempre lasciato un’ampia libertà. In Albania tanti fedeli seguono il Ramadan, ma allo stesso tempo non vige questa rigidità nelle pratiche come in altre nazioni. Vado spesso in moschea e mi sento in pace quando prego. Il Ramadan deve essere innanzitutto una pratica spirituale, un rapporto intimo tra te e Dio. Tutto ciò che faccio è per me stessa e mai per gli altri. Molto importante è ricordare che l’islam è fatto di azioni e intenzioni.

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Lara, italo-egiziana

Quando da piccola ho chiesto a mia mamma cosa significasse il Ramadan, mi ha spiegato che la funzione di questo mese è di rendersi conto del valore del cibo e dell’acqua, mettendosi nei panni delle persone che non ne hanno. Anche se non sono credente, mi piace attribuire questo significato al mese di Ramadan, e vorrei che tutti digiunassero per questo motivo, anziché seguire ciecamente la religione, o le persone attorno a loro. C’è molta ipocrisia durante questo mese: tanti di quelli che attribuiscono al Ramadan una valenza meramente religiosa, durante l’anno spesso non solo non sono praticanti, ma tengono comportamenti scorretti, sono disonesti, parlano male delle persone. Anche durante questo mese.

Che senso ha? Io non digiuno da qualche anno ormai, ma i miei genitori non ne sono a conoscenza.

Ho capito di non credere più in alcuna religione grazie allo studio delle discipline umanistiche, riuscendo a trovare risposte alle domande che mi ponevo già a 14-15 anni e alle quali mia madre non riusciva a rispondere. Lei, soprattutto, non accetterebbe questa mia scelta, come non accetterebbe la mia scelta di togliere il velo che ancora porto. È davvero paradossale, perché viaggio spesso da sola, compio le mie scelte di vita liberamente e ho un fidanzato lontano che vado a trovare. Quello di mia madre è un attaccamento irrazionale a questi precetti. Non capisco tanti dei suoi comportanti.

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Anes, italo-marocchino

Siamo tre fratelli e inizialmente mangiavamo tutti e tre di nascosto senza che nessuno di noi sapesse che l’altro “trasgrediva.” Poi, pian piano, uno ha beccato l’altro, l’altro ha beccato me, così abbiamo iniziato a parlarne, ci siamo scoperti tutti non credenti, e ora manteniamo insieme il silenzio. Nonostante l’educazione dei nostri genitori, noi siamo cresciuti in maniera opposta. Forse mia sorella piccola prenderà una strada diversa, ma ha solo 10 anni, ha tutto il tempo per cambiare idea. Questa segretezza condivisa non riguarda solo il Ramadan, ma tocca altri aspetti come l’uso di alcolici, il consumo di carne di maiale, la fidanzata di mio fratello, o la mia omosessualità.

Non parlo ai miei genitori dei miei mancati digiuni per risparmiarmi inutili noie; so che avrebbero una brutta reazione.

I miei genitori danno per scontato la nostra fede, non ci hanno mai fatto domande, anche se io ho spesso esternato critiche nei confronti della religione e delle nostre tradizioni. Forse sanno, ma preferiscono guardare dall’altra parte. Come quando, a 16 anni — periodo in cui iniziai a palesare la mia omosessualità — dopo un’iniziale insistenza, mio padre smise di chiedermi di andare in moschea, forse per vergogna.

Non parlo ai miei genitori, dei miei mancati digiuni, per risparmiarmi inutili noie; so che avrebbero una brutta reazione, in quanto la facciata religiosa è molto importante nella nostra famiglia. Inoltre, non mi sento in dovere di dirglielo per ora. I miei genitori sono analfabeti, e io mi sono sostituito alla loro “genitorialità” nei confronti dei miei fratelli. Vedo nel loro analfabetismo l’impossibilità di conoscere il mondo e di comprenderlo nell’aspetto pratico e teorico. Mi basta che ne siano consapevoli i miei fratelli. Infine, penso che il Ramadan sia diventato ormai una sorta di rituale da tramandare, senza alcuna valenza religiosa.

Mohamed, italo-tunisino

Da piccolo ho sempre vissuto il Ramadan come costrizione, come etica culturale da rispettare obbligatoriamente una volta all’anno, un periodo che si trasformava in un inferno per un bambino tanto abituato al cibo e alle sue bevande zuccherine. Adesso il Ramadan non lo vivo più come costrizione, piuttosto come ricordo. Sono anni che ho abbandonato la fede e non ho mai avuto alcun senso di colpa. Mia madre, che conserva bellissimi ricordi — tra cui il gelato nascosto nel congelatore, il panino in borsa e la bottiglia d’acqua sotto al letto — svolge il suo periodo di rinuncia con un po’ di sofferenza.

Adesso il Ramadan non lo vivo più come costrizione, piuttosto come ricordo.

In un certo senso è spinta dalla volontà di mio padre — che non digiuna per via del suo diabete — ma affronta il digiuno con tanta sicurezza: la sigaretta e la bottiglietta d’acqua sono doni che le faccio ogni volta per ringraziarla di tutti quei finti digiuni passati inosservati, che agli occhi di mio padre mi rendevano un figlio così abituato alle pratiche religiose. Posso dunque dire che la mia famiglia è spaccata in due: mia madre tutela la mia libertà di scelta, mio padre tutela l’idea che si è creato di me, di perfetto musulmano che digiuna e ringrazia Dio per le gioie della vita.

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Lyas, algerino

Ho passato molti anni ad osservare il “mese proibitivo,” però da quando sono in Italia — da 9 anni — non riesco più a digiunarlo tutto. All’inizio attribuivo la mia disobbedienza religiosa alla mancanza di fede, successivamente all’essere peccatore ostinato in quanto gay, poi infine l’ho collegato al fatto di essere nel contesto inadeguato. Non volevo più appartenere ad una dottrina che mi rendesse servo di insegnamenti poco coerenti tramandati da poteri politici pseudo-devoti al Creatore, mi sento più libero di capire a cosa serva davvero il mio digiunare.

Non posso spiegare ai miei genitori che non digiuno perché non ho ancora trovato la mia vera fede.

Non posso spiegare ai miei genitori che non digiuno perché non ho ancora trovato la mia vera fede. Non mi sento sincero né con me stesso né con i miei cari familiari, mento sulla mia vera identità e mento sul mio lavoro da barista. Mi sento poco sincero e decidere di avere una buona intenzione mi obbliga a non mentire, però preferisco ancora mentire per evitare un male più grande: il rischio di perdere ogni contatto con la mia famiglia che non vedo da quando sono arrivato in Italia. In fondo, se credo che Allah accetti solo ciò che è puro, non mi sento pronto ad affrontare il mese sapendo già che la metà del lavoro non sarà completato. Quando chiamo mia madre, fingo di avere la voce rauca da stanchezza, le chiedo delle ricette tradizionali da preparare nei giorni successivi e mando gli auguri a tutti i miei fratelli e sorelle 10 minuti prima della rottura del digiuno. Quando arriva l’orario dell’Iftar, disconnetto il cellulare per non farmi chiedere dalle mie sorelle le foto di ciò che avrei cucinato.

Maroua, italo-tunisina

Perché non digiuno? Semplice: non ci credo e non sento nessuna spinta interna. Ogni tanto spero di avere una chiamata divina, ma niente, rimango agnostica. Sul perché lo faccio di nascosto invece è una risposta più complessa. Rispetto ai genitori arabi che vedo attorno a me, i miei sono molto avanti, ma non così tanto da poter accettare e capire che loro figlia non crede in Dio. Lo sanno bene che non mi importa della religione, ma è come se ci fosse un certo “equilibrio” da mantenere e ammettere di non digiunare lo romperebbe. Se lo dicessi, poi cosa otterrei? Niente. Io vivo da sola, lavoro, studio, viaggio, dormo fuori casa e ho un moroso non musulmano. Dire che non credo e non digiuno non mi darebbe maggiori libertà. Romperei solo il rapporto che ho con mamma e papà e la mia famiglia in Tunisia. Penso comunque che bisogna dare tempo al tempo. Ora ho ho una libertà che da bambina mi sarei solo immaginata. Sono certa che in futuro anche questo si sistemerà.


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