Marcegaglia copertina

Mercoledì mattina un gruppo di sette operai del gruppo Marcegaglia ha occupato lo stabile di via Giovanni Della Casa, sede di alcuni uffici del potente gruppo metallurgico. I sette protestano contro il trasferimento impostogli dalla ditta a più di 100 chilometri di distanza dal loro attuale posto di lavoro.

Come si è arrivati a questo punto? Abbiamo cercato di ricostruire la vicenda, con l’aiuto degli operai coinvolti.

Le frizioni tra i dipendenti e l’azienda cominciano due anni e mezzo fa, quando la Marcegaglia decide di vendere lo stabilimento di Sesto San Giovanni: 80000mq di capannoni industriali acquistati direttamente dal Governo grazie alla Legge Prodi per 400 milioni di lire. Negli anni successivi, con la costruzione dell’Università Bicocca e la riconversione quasi totale della zona al terziario, i prezzi salgono: il valore attuale dello stabilimento è 400 milioni di euro – più di venti volte quello originario. 

Ai dipendenti, viene proposto il trasferimento a 110 chilometri di distanza, nello stabilimento di Pozzolo Formigaro (AL). La direzione sindacale – in Marcegaglia storicamente molto debole – all’inizio, punta i piedi. Una parte dell’RSU Fiom, però,  abbandona quasi subito la lotta e inizia un’opera di convincimento sugli operai perché accettino il piano dell’azienda. Questo accordo prevedeva la chiusura dello stabilimento e tre possibilità di scelta per i lavoratori.

Proposta uno: accettare il licenziamento, prendere 30.000 euro e andarsene.
Proposta due: accettare il trasferimento a Pozzolo Formigaro, utilizzando per andare e tornare da Milano un autobus navetta, più 150 euro supplementari al mese.
Proposta tre: fare un nuovo anno di cassa integrazione dopo il primo e cercare il collocamento in uno dei 4 stabilimenti limitrofi a Milano.

80 lavoratori hanno presi i soldi e se ne sono andati – oggi hanno finito i soldi e sono senza lavoro.
60 si sono trasferiti e dieci già si sono licenziati.
Sette hanno scelto la terza opzione – “Che a dire il vero era un po’ fumosa: per questo la Fiom non l’ha firmata”, racconta a The Submarine uno dei sette operai.

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“L’azienda ci voleva punire per questa scelta. Alla fine della cassa integrazione ci ha detto: siccome sono cambiate le leggi non possiamo aprire il secondo anno, non andiamo neanche a fare la richiesta. Da settimana prossima dovete andare a Pozzolo, però senza nemmeno la navetta e il bonus – insomma, vuol dire bruciare tutto lo stipendio in macchina.” I sette decidono di occupare la fabbrica, in cui tra l’altro è attiva la linea di produzione più efficiente della Marcegaglia Buildings. La tensione sale nel giro di qualche giorno, finché la prefettura decide di convocare operai e azienda. Davanti all’autorità, la Marcegaglia accetta di riprendere a tenere fede all’accordo stretto ormai più di un anno prima: chiedere la cassa integrazione e cercare di ricollocare i dipendenti negli stabilimenti del milanese.

“A quel punto sono partiti una serie di incontri. L’azienda continuava a sostenere che a Milano non c’era bisogno di nuovi dipendenti, ma non è vero. Un mese e mezzo fa c’è stato sciopero: in uno di questi famosi stabilimenti anziché fare quattro ore di sciopero ne hanno fatte otto perché c’è carenza di personale”. Venuti a sapere la cosa, i sette organizzano un picchetto con la Fiom. “L’azienda ha dato fuori di matto: dopo una settimana ci han convocato e ci han detto che posti per noi non ce n’eran più, dovevamo andare per forza a Pozzolo e con la nostra macchina. Al 31 di maggio ci siamo incatenati all’ingresso”.

L’ingresso in questione è quello degli uffici di cui si parla in questi giorni, in fondo a via Gallarate, dove lavorano 50 persone e ha sede la direzione generale di Marcegaglia Buildteck.

Un impiegato però sfonda il vetro della porta sul retro per far entrare gli altri a lavorare. “A quel punto abbiamo occupato l’edificio, e dopo un po’ la Prefettura ci ha riconvocato.”

Il prefetto rimprovera la Marcegaglia di essersi impegnata proprio lì a risolvere il problema e poi non aver tenuto fede agli accordi. “L’azienda allora ha cominciato a difendersi: non possiamo riprendervi qua a Milano, poi cosa diciamo a quelli che sono andati a Pozzolo? Noi abbiamo provato ad abbassare le nostre pretese, chiedendo di prenderci part-time anziché a tempo pieno. Ci hanno risposto che non era possibile”. La prefettura rimanda di una settimana, invitando l’azienda a riflettere: “I lavoratori vi hanno fatto delle proposte valide, valutatele e tornate qua settimana prossima.”

“Il 14 la prefettura ci ha riconvocato. L’incontro è durato un quarto d’ora: l’azienda è arrivata e ha detto – non ce n’è per nessuno, devono andare tutti a Pozzolo. Al che uno di noi salta su e dice – guardate, al massimo domani possiamo presentarci al nostro posto di lavoro qua a Milano. E quale sarebbe il vostro posto di lavoro a Milano?, ci chiede il direttore. E noi: quello di Sesto San Giovanni.”

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Un operaio ride. “Per cui gli abbiamo fatto credere che saremmo andati a occupare la fabbrica di Sesto. Lui ha fatto la segnalazione in Questura e la mattina dopo lo stabilimento era piantonato dalla Digos. Noi invece siamo venuti tranquillamente qua in macchina a occupare gli uffici.”

E così si arriva ad oggi. Il movimento sindacale in Marcegaglia è debole, ma l’azienda non può cedere se vuole mantenere questa sua fama. “Se viene fuori che sette persone hanno fatto casino e hanno ottenuto quello che volevano…possono succedere casini dentro l’azienda e fuori, coi loro pari, che temono che questa cosa diventi un esempio.” Gli operai hanno ricevuto la solidarietà di molte sigle sindacali, realtà autogestite e anche del consigliere regionale del PD Onorio Rosati.

“Ci siamo portati dentro cento litri di benzina, così se scelgono la forza sanno che mettono a repentaglio la nostra vita oltre che la loro. È un deterrente per scenari che noi vorremmo assolutamente evitare. Ora l’azienda ci sta proponendo di andarcene in cambio di soldi ma non ce n’è, noi siamo entrati qua dentro perché vogliamo riavere la nostra dignità.”  Qualche giorno fa gli operai hanno dichiarato che dagli uffici non sarebbero usciti se non con un accordo o con l’esercito.

“Settimana prossima qualcosa cambierà, o si farà l’accordo o si farà la guerra.”