Chi si lamenta del presunto riscatto pagato per liberare Silvia Romano dovrebbe guardare i dati sull’export di armi italiane alle dittature di mezzo mondo, dall’Arabia Saudita all’Egitto di al-Sisi
A proposito del rapimento di Silvia Romano, al di là delle polemiche sterili sulla sua conversione all’Islam — che è stata al centro del più ignorante dei dibattiti pubblici nell’ultima settimana — in molti hanno nascosto la propria islamofobia dietro al fatto che, con il presunto riscatto pagato ai rapitori, l’Italia abbia di fatto finanziato un’organizzazione jihadista. Da ultima, per esempio, la candidata della Lega alle regionali toscane Susanna Ceccardi, che ha condiviso la notizia di un vecchio attacco di al-Shabaab contro una postazione di militari italiani, suggerendo che i soldi per il riscatto fossero “già stati messi a frutto.”
Non sappiamo ancora con certezza se un riscatto sia stato pagato o meno: il ministro degli Esteri Di Maio ha detto espressamente di non saperne nulla e l’intervista della Repubblica in cui un portavoce di al-Shabaab confermava che i soldi sarebbero stati usati per “finanziare la jihad” è stata smentita dagli stessi jihadisti. Quello che sappiamo di per certo, però, è che l’Italia non ha bisogno di pagare riscatti per far arrivare armi ai gruppi terroristi di mezzo mondo. Per capirlo, basta analizzare chi sono i principali destinatari delle esportazioni di armi — business in cui il nostro paese è tra i primi al mondo.
“Tra i destinatari principali ci sono paesi che non appartengono alle alleanze dell’Italia,” si legge in un dettagliato rapporto della Rete Italiana per il Disarmo pubblicato per l’Osservatorio Diritti, basato sulla Relazione governativa sull’export italiano di armamenti, pubblicata dalla Camera dei deputati a maggio dell’anno scorso. “Si tratta, cioè, di Stati al di fuori dell’Unione Europea e della Nato, ai quali sono state rilasciate licenze di compravendita per quasi 3,5 miliardi di euro, che corrispondono al 72,8% dell’export totale. Nel 2018 tra i maggiori acquirenti figuravano paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente. In quest’area, che è la zona di maggior tensione del mondo, è stata destinata la quota maggiore di armamenti: oltre 2,3 miliardi di euro, che rappresentano il 48% delle autorizzazioni all’esportazione. Una quota ben superiore ai poco più di 1,1 miliardi di euro di autorizzazioni rilasciate ai paesi dell’Ue e della Nato (il 23%), che sono i principali alleati politici e militari del nostro paese. La terza posizione è dell’Asia, un’altra zona di forte instabilità, che con oltre 1 miliardo di euro ricopre il 22% delle di autorizzazioni rilasciate nel 2018. Ancor più preoccupanti sono i paesi destinatari degli armamenti. Si tratta, nell’ordine, del Qatar (1,9 miliardi di euro, soprattutto per l’acquisto di 12 elicotteri NH-90), Pakistan (682 milioni), Turchia (362 milioni), Emirati Arabi Uniti (220 milioni) e India (54 milioni)”.
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Purtroppo, non è possibile reperire i dati annualmente, in quanto l’Italia si è sempre dimostrata restia a consegnare alle istituzioni sovranazionali i rapporti delle esportazioni previsti dal Trattato sul Commercio delle Armi, votato dall’Assemblea Generale dell’ONU, che conta, ad oggi, 96 stati facente parte e 130 firmatari. Dal 2009 al 2017, infatti, ad esclusione degli anni 2013-2014, non è stato fornito alcun dato sui beneficiari delle spedizioni. In pratica, per ben sei anni sono uscite dal nostro paese tonnellate di armi senza che nessuno sappia dove siano finite effettivamente.
Ma quali sono le condizioni che portano a questa “dispersione” di materiale bellico?
“L’Italia spesso predilige vendere armi a regimi totalitari che le usano per perpetrare pratiche di repressione sulla popolazione e, sistematicamente, questi regimi sono vittima di rovesciamenti di potere e destituzioni che causano depredazione e dispersione di armamenti,” spiega Giorgio Beretta, analista ricercatore dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere, riprendendo una sua audizione presso la Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati nell’ambito dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile. “Per esempio, le 11.100 tra pistole, carabine e fucili venduti alla Libia di Gheddafi nel 2009, secondo un accordo di partnership che non teneva conto delle sistematiche violazioni dei diritti umani e degli scopi repressivi per cui erano state presumibilmente acquistate, in seguito alla caduta del regime nel 2011 sparirono in blocco per riapparire come nuove nel mercato di Bengasi, a prezzi stracciati e alla portata di tutti, soprattutto di individui non formalmente combattenti. Una quantità di pezzi enorme, se si pensa che nell’intera Europa in cinque anni sono state sequestrate meno di 13 mila armi leggere.”
“Gli illeciti nella compravendita di armi non riguardano soltanto il mondo della criminalità organizzata, ma sono riconducibili anche alle istituzioni statali che approfittano di vuoti legislativi per aggirare le normative nazionali e sovranazionali,” continua Beretta. “Esiste una consistente ‘zona grigia’ composta da chi promuove transazioni commerciali di armi nelle quali l’utilizzatore finale non è il reale destinatario del prodotto bellico che, in questo modo, sparisce nei meandri delle reti informali all’interno delle quali troviamo anche gruppi terroristici. Se gli illeciti coprono dal 5 al 7% del mercato d’esportazione nostrano, la zona grigia arriva fino al 25%, rappresentando una sostanziosa fetta della torta.”
Entriamo nello specifico di un altro caso emblematico. Secondo la Campaign Against Arms Trade, organizzazione inglese che monitora i flussi di armamenti, nel triennio 2012-2014 l’Italia ha venduto armi all’Arabia Saudita per circa 700 milioni di euro, come ha ammesso l’allora ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni, rispondendo a un’interrogazione parlamentare. L’Arabia Saudita però ha intrapreso una guerra genocida con lo Yemen e, siccome la nostra Costituzione vieta di vendere armi a paesi coinvolti in conflitti bellici, l’Italia ha attuato un furbo stratagemma che consiste nel vendere le armi all’Inghilterra, grazie alla sinergia tra l’italiana Leonardo e l’inglese BAE Systems, che poi aggirerebbe le procedure burocratiche, con un sistema di targhe doppie, per far arrivare gli armamenti in Arabia Saudita.
Infatti, dall’inizio della guerra in Yemen, l’Italia ha aumentato considerevolmente le esportazioni di armi verso il Regno Unito, che dall’inizio della guerra, nel 2015, ha venduto armi per più di 5 miliardi di sterline al regime saudita. La cosa sconcertante è che, a detta del CAAT, questi armamenti vengono spesso usati per la guerra di retrovia, una “guerra nella guerra” che vede coinvolti diversi gruppi terroristici locali. Infatti, è documentato che parecchi blindati e bombe siano finiti, per esempio, nelle mani della cellula yemenita di Al Qaeda, formazione terroristico-jihadista filo-saudita.
A questa vicenda si aggiunge quella denunciata dall’associazione Conflict Armament Research, secondo cui l’azienda bolognese Biolchim, nel 2016, ha prodotto 12 tonnellate di fertilizzante chimico a scopo bellico che sono state successivamente rinvenute, in parte, in un covo dello Stato Islamico in Iraq, paese all’interno del quale l’esercito degli Stati Uniti ha perso, dall’inizio dell’occupazione militare, centinaia di milioni di dollari in armamenti di vario tipo, come testimoniato da diverse inchieste dei maggiori media internazionali.
Insomma, se le istituzioni italiane volessero davvero evitare di armare gruppi terroristici di mezzo pianeta, dovrebbero riconsiderare l’intero sistema di compravendita di armamenti che ci vede tra i primi dieci produttori ed esportatori del globo. I 4 milioni di euro che sembrano esser stati pagati ai miliziani di al-Shabaab per liberare Silvia Romano non sono che una piccola goccia nell’oceano del traffico internazionale di armi, che rappresenta una fonte di guadagno immensa per alcune grandi aziende italiane che si vantano di rappresentare un’eccellenza del nostro paese. E se si sceglie di portare avanti rapporti politici e diplomatici con alcuni dei regimi più sanguinari della nostra epoca, la commistione con organizzazioni di combattenti fondamentalisti è inevitabile.
Proprio ieri sono stati diffusi i dati aggregati dell’export militare italiano per il 2019, e in cima alla lista dei paesi destinatari c’è l’Egitto di al-Sisi, quello a cui, a parole, si chiede “verità per Giulio Regeni” e giustizia per Patrick Zaki, ancora ingiustamente imprigionato dallo scorso febbraio. Al Cairo, nel 2019, il nostro paese ha venduto armamenti per oltre 872 milioni di euro.
Non basta, dunque, agire nella legalità di una rete istituzionale che presenta evidenti vuoti normativi e consegnare i dovuti rapporti agli enti internazionali preposti. Bisognerebbe riconvertire un settore industriale dalle enormi risorse, darlo in mano allo Stato così che faccia gli interessi della collettività e smettere di produrre morte esportabile con un semplice volo diplomatico.
Perché se in futuro i terroristi rapiranno ancora dei nostri concittadini impegnati in progetti dall’indubbio valore sociale, non sarà solo per accedere alle nostre casse, ma per potersi rifornire dai nostri arsenali una volta ottenuto il pagamento del riscatto.
In copertina: miliziani di al-Shabaab in Kenya, grab via YouTube.