L’Europa è in crisi. La sinistra, ancorata ai vecchi partiti e incapace di smarcarsi dal pensiero unico, perde smalto e consensi — ne abbiamo parlato con Lorenzo Marsili, cofondatore di DiEM25.
“L’aria è stantia. E a noi serve qualcosa che sia come spalancare le finestre in un giorno di tempesta.” Lorenzo Marsili ha lanciato insieme all’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis il movimento paneuropeo DiEM25, un progetto che aspira a promuovere “un’Europa più giusta”, come la vogliono le giovani generazioni. Una missione rimasta per troppo tempo senza un vero interprete. Ora è il momento di agire.
Al primo turno delle presidenziali francesi Benoit Hamon, il candidato dei socialisti, ha ottenuto meno del 10%. In generale, come hanno mostrato anche le elezioni in Austria e Olanda, la sinistra in Europa non se la passa bene. Come ti spieghi questo crollo dei consensi?
Ci sono due forze al lavoro. La prima è l’implosione, generalizzata, dei partiti tradizionali. E’ incredibile come in troppi non abbiano ancora capito che i lunghi anni di crisi iniziati nel 2008 stiano marcando una straordinaria cesura storica. Le ricette del mondo di ieri, per usare il titolo di un bel libro di Stefan Zweig, non servono più a nulla. E questo si manifesta in un rigetto generalizzato delle vecchie strutture politiche.
E la seconda?
La socialdemocrazia di governo sconta un altro problema: l’essere stata, molto spesso, la prima artefice di quelle politiche di svalutazione del lavoro, privatizzazione, e liberalizzazione della finanza che ci hanno portato al disastro di oggi. Si chiamava Terza Via, e fu inaugurata da Tony Blair e Bill Clinton e seguita fedelmente dal centro-sinistra e socialismo francese, tedesco, spagnolo e italiano.
Una sudditanza che continua ancora oggi?
Sì, basti ricordare che mentre il governo Tsipras lottava per ottenere una diversa politica economica europea e una diversa gestione del debito pubblico, i governi di Hollande e Renzi fecero veramente poco per prendere la palla al balzo e provare a cambiare le politiche dell’Unione. Preferirono giocare a poliziotto buono e poliziotto cattivo con Angela Merkel.
Tornando alla Francia, come valuti il programma e il candidato Jean-Luc Mélenchon? È stato lui a incarnare la sinistra alle presidenziali?
L’esperienza di Mélenchon dimostra come i temi dell’uguaglianza, della ridistribuzione della ricchezza, della giustizia fiscale, dell’ecologia e della riforma di quella che perfino un economista mainstream come Dan Rodrik chiama iperglobalizzazione, siano diventati temi chiave del dibattito politico e temi capaci di mobilitare in maniera trasversale. E’ molto interessante notare come fra gli elettori di Mélenchon ci fossero giovani e studenti così come tantissimi da quelle periferie che il centrosinistra di governo pare essersi rassegnato ad abbandonare all’estrema destra.
Del candidato della ‘France Insoumise’ non ha però convinto l’atteggiamento euroscettico nei confronti dell’Ue.
Non sta a me dare la pagella a un candidato che è riuscito a risollevare la sinistra in Francia fino a sfiorare il 20%, ma credo che anche lui, soprattutto sulle tematiche europee, sconti il peso del “mondo di ieri”. Perché non sarà il nazionalismo economico a salvarci. E perché esiste una generazione che è cresciuta con l’idea e l’aspirazione di un’Europa unita e democratica. E quindi, così come si ha il coraggio di strappare il vessillo della difesa degli ultimi all’estrema destra, credo si debba avere il coraggio di strappare l’aspirazione a un’Europa giusta e unita alle forze di establishment. Le stesse che proprio quel sogno europeo sono state le prime a tradire.
Emmanuel Macron sarà il nuovo presidente francese. Credi che sia lui il candidato di cui l’Europa ha bisogno?
L’Europa ha bisogno di aprire una nuova storia. E’ bene che Macron abbia posto il tema della riforma dell’Unione europea al centro dell’agenda: perché non riusciremo mai ad affrontare i grandi problemi di questi anni – dalle migrazioni alla criminale evasione fiscale delle grandi multinazionali (come Apple, ndr) – senza riuscire a costruire una forza pubblica europea saldamente democratica e dalla parte dei cittadini. Sarà Macron la persona in grado di portare a compimento questa trasformazione necessaria? Purtroppo ho forti dubbi a riguardo, almeno per due ragioni.
Quali?
La prima è che il Presidente francese rimane l’espressione di un impianto politico fallito. Quello stesso impianto – licenziamenti facili, finanza, fondamentalismo di mercato – che non ha funzionato negli anni della Terza Via di cui parlavamo. E che non funzionerà, in maniera assoluta, oggi. La seconda è che Macron difficilmente riuscirà ad esercitare la forza, e quindi anche la disobbedienza, necessaria a far cambiare volto alla politica tedesca, vera azionista di maggioranza di questa Europa. E in queste condizioni una maggiore integrazione rischia addirittura di essere controproducente.
Puoi fare un esempio?
Prendiamo l’idea di un ministro delle finanze dell’Eurozona. E’ ovvio a tutti che non può continuare un’unione monetaria senza unione economica e fiscale. E che quindi serva un governo economico dell’Eurozona, capace di ridurre la grande divergenza tra Paesi centrali e Paesi periferici. Ma, nella mente del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, un Ministro di questo tipo non avrà alcun ruolo virtuoso, non sarà la figura da cui passerà un welfare europeo o un vero piano di investimenti comune. Ma sarà solamente il guardiano dell’austerità Marsili e Varoufakis durante la marcia di DiEM25 per i 60 anni dell’Ue a Roma (Twitter – DiEM25)
L’Europa dell’austerità e del rigore dei bilanci piace sempre meno. Qualcuno comincia persino a dubitare che l’Ue e l’eurozona siano riformabili dall’interno. Insieme a Yanis Varoufakis hai fondato DiEM25. Puoi spiegare qual è il vostro progetto?
Abbiamo bisogno di almeno tre cose. Idee chiare sul tipo di Europa da costruire, con politiche immediatamente attuabili, già domani, per tirarci fuori dal pantano. Poi abbiamo bisogno di europeizzare il dibattito nazionale, portando queste politiche al centro della discussione nazionale e riuscire ad arrivare, nel più breve tempo possibile, a partiti e anche governi nazionali capaci di interpretare la necessità di un cambiamento profondo, e di farsi portatori di questa necessità, anche in disobbedienza verso le strutture attuali dell’Unione. Disobbedienza costruttiva, la chiamiamo. Abbiamo, infine, la necessità di costruire un grande movimento politico transnazionale, che sia anche in grado di competere alle elezioni europee del 2019 e rappresentare il primo grande tentativo di aggiornare la democrazia allo spazio europeo in cui già ci troviamo proiettati.
Per fare tutto ciò non servirebbe un partito europeo?
Non bisogna necessariamente fondare un nuovo partito transnazionale, ma sicuramente significa andare molto oltre i finti partiti europei di oggi, semplici ombrelli confederali incapaci, come la vicenda greca di insegna, di portare avanti una campagna coordinata in tutto il continente quando sarebbe invece tragicamente necessario. DiEM vuole agire su tutti questi tre piani. E lo vuole fare in maniera partecipata, forte anche di quasi 70.000 iscritti in pochi mesi di vita.
A proposito di cambiare l’Europa: Matteo Renzi, da poco riconfermato segretario del PD, viene considerato da molti il “Macron italiano”. I due insieme potrebbero cambiare l’Ue, oppure è solo un bluff?
Io credo piuttosto che Macron – non me ne voglia – sia il Renzi francese. Meno provinciale, senza dubbio, ma le premesse politiche sono simili. Così come l’effetto-novità e l’utilizzo di quello che potremmo chiamare un certo populismo di centro. Un asse Macron-Renzi? Ci proveranno, dovesse essere ricandidato il segretario del PD alla guida dell’Italia, cosa tra l’altra piuttosto dubbia. Ma la sommatoria di due debolezze non fa la forza necessaria.
Un’ultima domanda sull’Italia. Con Renzi che ha ormai apertamente portato il PD a convergere verso il centro, restano speranze di un partito progressista in senso economico e civile?
Penso ci siano tante, vere questione dirimenti per il nostro Paese ancora in cerca di una voce autorevole. Questioni come la ridistribuzione della ricchezza, perché non funziona un mondo in cui in pochi hanno troppo e in tanti non hanno nulla: patrimoniale intelligente, tassazione progressiva, tassa di successione sono solo alcuni degli interventi necessari. Questioni come la grande evasione delle multinazionali, perché è uno scandalo che ai grandi monopolisti delle nuove tecnologie si permetta un’aliquota fiscale che è un quarto di quella pagata dalla piccola e media industria italiana, così come è uno scandalo che le holding finanziarie – come quella degli Agnelli – trasferiscano i propri bilanci in paradisi fiscali come l’Olanda.
E poi?
Bisogna affrontare il tema della ridistribuzione del lavoro. Perché era il 1930 quando Keynes predisse per i suoi nipoti – che saremmo noi – una settimana lavorativa di 15 ore. E oggi il dibattito internazionale è molto acceso: si sta riscoprendo che ridistribuire il lavoro farebbe crescere occupazione e produttività e diminuire inquinamento e ineguaglianze. E’ arrivato il tempo della settimana corta, incentivata da sgravi fiscali e diritto al part-time.
La lista sembra essere lunga…
Potrebbe esserlo anche di più. Ma il punto dirimente è che queste sono tutte questioni, semplicemente, di buon senso e di giustizia. Perché in un momento storico in cui il vecchio muore e il nuovo deve nascere, la vera follia ideologica è abbarbicarsi a modelli già falliti. E allora, sì, penso servirebbe un nuovo movimento politico radicalmente democratico che si faccia portatore di queste istanze, in maniera trasversale. Ma non può essere il riciclo delle vecchie dirigenze. L’aria è stantia. E a noi serve qualcosa che sia come spalancare le finestre in un giorno di tempesta.