Palazzo della Consulta. Foto di dominio pubblico, Jastrow
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Con una sentenza molto importante, anche se piuttosto oscura nella sua formulazione, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo un pezzo importante del Jobs Act, la famigerata riforma del mercato del lavoro voluta da Renzi e dal suo Pd che nel 2015 ha abbattuto numerose tutele per i lavoratori dipendenti in Italia. Ora, secondo la Consulta, i lavoratori avranno di nuovo diritto al reintegro nel caso in cui il loro licenziamento venga giudicato nullo: la soppressione di questo diritto, sancito dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, era uno dei punti centrali del provvedimento renziano. Tutto si gioca sulla parola “espressamente”: nella legge renziana, infatti, si legge che “il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio (…) ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.” Dunque per il reintegro il licenziamento doveva ricadere in un chiaro perimetro normativo. Il problema è che la legge delega approvata in primo luogo dal Parlamento non conteneva la parola “espressamente,” aggiunta dal governo in modo illegittimo e sbrigativo durante la stesura del decreto legislativo. Secondo la Consulta, “prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa,” il decreto “ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie ‘escluse’ […] così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante.”
Negli anni numerose parti del Jobs Act sono saltate: nel 2018 era stato dichiarato incostituzionale il criterio di indennizzo di 2 mesi per ogni anno di servizio del contratto a tutele crescenti, mentre nel 2020 la questione si è allargata al meccanismo di indennizzo in caso di vizi formali e procedurali. È evidente, insomma, che sia parere dei giuslavoristi che è necessario intervenire con un’ulteriore riforma del mercato del lavoro, che dovrebbe ricadere nelle mani del governo Meloni.
È sempre più chiaro che in Italia serve una riflessione di respiro più ampio sul lavoro: secondo l’ultimo rapporto Censis, il 67% degli occupati in Italia vorrebbe una riduzione del proprio orario. Del resto, nonostante la propaganda tradizionale che dipinge gli italiani come più fannulloni rispetto al resto del continente, in Italia si lavora in media 3 ore in più rispetto alla media europea e 6 ore in più rispetto alla media tedesca. Nei giorni scorsi Giuseppe Conte aveva proposto di introdurre una settimana di lavoro corta, con la riduzione delle ore di lavoro da 40 a 32 a settimana, a parità di salario. Le opposizioni come Pd, Avs e Up devono però ancora superare il sostanziale incagliamento della loro proposta sull’introduzione del salario minimo, che finora si è risolta in un nulla di fatto nonostante le molte energie politiche investite.