Il Posto è un documentario che segue il viaggio degli aspiranti infermieri dal Sud al Nord per sostenere i concorsi pubblici. Ne abbiamo parlato con gli autori, Mattia Colombo e Gianluca Matarrese
Il Posto di Mattia Colombo e Gianluca Matarrese è un documentario che segue i lunghi viaggi da sud a nord degli aspiranti infermieri verso le sedi dei concorsi pubblici. Interminabili ore di pullman verso il sogno del “posto fisso”: una sorta di road movie che attraversa l’Italia a bordo dei mezzi messi a disposizione da Raffaele, un aspirante infermiere diventato imprenditore: è titolare di Bus to go, un’agenzia di viaggi low cost per concorsisti professionisti. Il documentario sarà proiettato domani sera – domenica 27 novembre, alle 21.15 – all’Arcobaleno Film Center, nel corso della serata di chiusura di Filmmaker 2022. Colombo e Matarrese saranno presenti in sala: li abbiamo intervistati per sapere qualcosa di più del film.
Di cosa parla Il Posto?
Il Posto parla della situazione della sanità pubblica in Italia, ma è soprattutto un film sull’oggi e sull’incertezza dei nostri tempi. Il titolo è certamente un omaggio a Olmi, ma quando parliamo del posto intendiamo soprattutto quello che ognuno ha bisogno di trovare nel mondo. Attraverso i personaggi che incontriamo vogliamo parlare del nostro tempo e insieme fare una critica al sistema disfunzionale in cui viviamo – che per quanto riguarda i meccanismi di assunzione della sanità, rappresenta un unicum nel mondo.
Perché avete scelto di raccontare questa storia?
Abbiamo scoperto la storia di Raffaele in un articolo su Internazionale. Un giornalista belga raccontava di come, da aspirante infermiere, Raffaele avesse messo in piedi un business di viaggi organizzati per andare a sostenere i concorsi. Abbiamo visto le immagini di questi palazzetti pieni di banchi e sedie una in fila all’altra, delle moltitudini di persone in attesa. L’articolo parlava di Raffaele e degli infermieri alla ricerca del posto fisso guardandoli come dei fenomeni isolati, e abbiamo capito che c’era invece spazio per dare loro delle voci. La nostra non è stata un’indagine giornalistica, ma un vero e proprio incontro. Per questo abbiamo deciso di salire sul pullman, di sederci e mettere la camera alla loro altezza per ascoltare le loro storie.
Gli ambienti in cui ci muoviamo sono due: l’interno del bus e le enormi aule delle prove di esame. Che rapporto c’è tra questi spazi?
Ci è stato chiaro fin da subito quale sarebbe stato il lavoro sugli spazi: sul bus avremmo seguito i personaggi da vicino, per raccogliere i dialoghi e guardare l’Italia scorrere fuori dai finestrini – non un’Italia da cartolina ma fatta di autogrill, periferie e fermate sotto ai lampioni. L’idea è sempre stata partire con la macchina a mano, per guardare le cose da vicino, per poi allargarci, mettendo la macchina sul cavalletto e aprendoci a inquadrature prospettiche e geometriche, per inquadrare i palazzetti e parlare della quantità del fenomeno. Come il pesce rosso nella boccia, siamo con loro nel bus, ma fuori c’è un oceano in cui li perdiamo. Abbiamo scelto di non seguirli durante il concorso, ma di perderli tra la folla alla fine del loro viaggio.
Siamo in un’epoca in cui abbiamo paura del futuro e ci rifugiamo con piacere in un’idea di passato rassicurante – i personaggi che incontrate sognano le vite dei loro genitori, una stabilità che per certi versi appartiene ad un altro tempo. In questo momento storico, che significato ha il posto fisso?
Mentre giravamo il film ci siamo chiesti più volte: ne vale davvero la pena? Affrontare questo calvario per un posto fisso? Ci sembra che questo sogno – essere assunti dallo stato, lo stesso lavoro per tutta la vita, per di più senza crescita salariale – sopravviva ad oggi solo in Italia. E anche in Italia non rappresenta il sogno di tutti. Noi per primi facciamo fatica a identificarci con questi desideri, e forse siamo davanti ad un’eredità del mezzogiorno, di fortissimi legami tra terra e famiglia. Nel viaggio da Salerno a Udine abbiamo incontrato una ragazza napoletana che, abituata a vivere sul mare, davanti alla nebbia di Udine mette in discussione la possibilità di trasferirsi. Oggi c’è anche una generazione che invece dà per scontata la necessità di spostarsi più volte nell’arco di una vita per avere una carriera. Il film solleva questioni che raccontano una fetta di giovani precari, ma non sono tutti così.
Il lavoro non dovrebbe essere un sogno ma un diritto. Non si dovrebbe avere il diritto di lavorare e sognare qualcosa di diverso?
È così, il lavoro dovrebbe essere un diritto (lo dice anche la Costituzione) ma i personaggi che incontriamo, quando sognano, sognano un lavoro. Anche noi, d’altronde, siamo precari, emigrati dall’Italia (Gianluca vive in Francia) e continuiamo a scontrarci con la fatica di lavorare in Italia. Questo film, ad esempio, parla di Italia ma è stato realizzato unicamente da finanziamenti esteri, in particolari da fondi di Francia e Germania. L’unico finanziamento italiano è stato quello vinto all’Atelier di Milano Film Network.
Nel quadro scoraggiante di questa situazione, i personaggi che incontrate sono positivi e solidali – lo stesso progetto di Raffaele nasce con l’idea di dare un servizio laddove lo Stato non lo fornisce. Non credete ci sia uno scollamento tra l’Italia ritratta dal discorso politico e la realtà?
Probabilmente sì, e una proiezione de Il Posto in Corea del Sud ci ha aperto gli occhi su questo. La Corea ha una società molto competitiva, l’accesso al lavoro passa attraverso moltissime prove da alcuni punti di vista simili a quelle che vediamo nel documentario. Il pubblico lì è rimasto scioccato dal fatto che le persone sul bus si aiutassero a vicenda, nonostante fossero in competizione per lo stesso posto di lavoro. Forse c’è tanto di sbagliato nella nostra società, ma dal film esce sicuramente un sentimento di orgoglio per una società che sa trovare la forza nell’aiuto reciproco. La storia che raccontiamo è amara, ma la cooperazione tra le persone le dà tantissima luce. Se il bus rappresenta un pezzo di Italia, racconta che forse non tutto è perduto, che c’è speranza. La politica non è in grado di vederla, perché sull’autobus non ci sale mai.
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