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Alla base delle politiche sociali del regime fascista c’era lo stesso mito della “famiglia naturale” che ritroviamo nelle proposte delle destre di oggi

A meno di un mese dal risultato delle elezioni, le preoccupazioni per l’attacco delle destre ai diritti riproduttivi delle donne, delle persone con utero, di chi non rientra nella sfera eteronormata “tradizionale,” si confermano ben fondate: dall’elezione alla presidenza della Camera di Lorenzo Fontana, leghista veronese omofobo, figura di spicco del movimento anti-abortista e del mondo cattolico ultra-conservatore, alla probabile nomina, come ministra della Famiglia e della Natalità, di Simona Baldassarre, europarlamentare leghista legata alle associazioni ultracattoliche “CitizenGo” e “Family Day,” che in Europa ha votato contro il rapporto sulla salute riproduttiva delle donne e ha rivendicato di voler “cambiare quelle leggi del nostro paese che contrastano il diritto naturale,” riferendosi evidentemente alla 194; fino al disegno di legge, proposto da Forza Italia, per il riconoscimento della capacità giuridica al concepito: è chiaro che la maggioranza meloniana ha intenzione di ricostruire un’idea di “ordine nazionale” basato sulla “famiglia tradizionale” come unica “naturale” possibilità. 

Come fa notare la storica Alessandra Gissi su Jacobin, il mito della “famiglia tradizionale” e l’idea di una divisione “naturale” dei ruoli all’interno della cornice familiare hanno radici profonde nel fascismo storico: in una circolare ai prefetti del 5 gennaio 1927, Mussolini esortava al controllo dell’ordine morale tra i cittadini come strumento di ordine pubblico. In questo “ordine morale” era compreso, naturalmente, il ruolo della donna come madre e strumento di procreazione per la nazione. La legislazione fascista fu, dunque, molto severa con l’aborto: con il Codice penale Rocco del 1930 si inserirono l’aborto criminoso tra i “delitti contro la stirpe,” il reato di istigazione con fornitura di mezzi idonei, il reato di atti abortivi su donna ritenuta incinta e quello per istigazione all’aborto quand’anche non attuato. Tuttavia, a queste norme repressive si accompagnarono anche alcune politiche attive, attuate o discusse. È oggi importante riprendere anche quest’ultime, per comprenderne ambiguità e allenare uno sguardo critico che, con il prossimo governo, potrà rivelarsi utile.

Già a metà degli anni Venti il regime avviò una politica pronatalista che culminò in un’enfasi inedita sul ruolo e sul corpo femminile in funzione esclusivamente riproduttiva e nella configurazione della maternità come dovere patriottico: uno degli esempi più evidenti è quello della creazione nel 1925 dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI), attiva fino al 1975, che risuona oggi nella proposta leghista per un ministero della Famiglia e della Natalità. Per formare le “buone madri e mogli”, il fascismo investì molto in apprendistati di economia domestica rivolti alle giovani spose. Nel 1929 l’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro pubblicò il primo numero della rivista bimestrale “Casa e Lavoro”, dedicato proprio ai temi della gestione domestica. Il regime aveva il preciso obiettivo di consolidare la gerarchia dei generi all’interno della famiglia e di sfruttare al meglio le risorse del lavoro domestico. È proprio in questa direzione che si iniziò a discutere dell’ipotesi del riconoscimento sociale del lavoro domestico della casalinga come occupazione regolare: le prime ipotesi di dare un salario alle casalinghe furono fasciste, anche se non sarebbe mai stato introdotto durante il Ventennio. 

La stessa idea, cambiata di segno, sarebbe ritornata solo negli anni Settanta, stavolta all’interno del dibattito femminista radicale. Nel 1974 si formò il “Gruppo per il salario al lavoro domestico,” la questione del salario alle casalinghe divenne cruciale e ci fu una campagna che si diffuse rapidamente in Inghilterra e Nord America, portando alla fondazione di uno dei primi movimenti sociali transnazionali, Wages for housework Groups and Committees. Questa rete spingeva una critica dello stato sociale come protettore e garante della divisione sessuale del lavoro e sosteneva l’idea che un salario per le casalinghe potesse essere uno strumento utile anche se parziale, contro la naturalizzazione del loro ruolo e per ottenere minor sfruttamento e maggiore potere sociale. Al contrario, un’idea simile è tornata oggi nel campo delle destre, in senso pro-natalista, con la proposta del “reddito di maternità” avanzata dal Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi.  

Storicamente è interessante osservare questi due modi, simili ma opposti negli obiettivi, di affrontare il lavoro domestico in rapporto alla separazione tra lo spazio “privato” della casa e lo spazio pubblico. Infatti, in modo gradualmente più netto nel corso del diciannovesimo secolo, è avvenuta una riorganizzazione della divisione del lavoro tra i generi e dei luoghi di lavoro femminili e maschili, con più netta caratterizzazione della sfera domestica come ambito femminile e con la rigida separazione tra una sfera “privata” femminile e una sfera pubblica maschile. È stata costruita una marcata separazione tra lavoro di produzione e di riproduzione sociale, interpretato come attività che non crea valore e dequalificato sia all’interno che all’esterno dello spazio domestico. 

A ciò sono accompagnate a una sostanziale naturalizzazione del ruolo femminile nella casa e dei relativi doveri domestici: le donne sono state più marcatamente costruite come responsabili dell’organizzazione della casa e delle attività di cura, sempre meno viste come un lavoro vero e proprio rispetto a epoche precedenti e considerate come attività dovute, in quanto naturale obbligo coniugale. Tuttavia, se le proposte femministe cercarono di fuoriuscire da questa separazione socialmente costruita tentando di fare irrompere il pubblico nel privato con la proposta di un salario alle casalinghe; i fascisti, con la stessa proposta e politicizzando la sfera domestica, cercarono di fissare ulteriormente la divisione “naturale” (e gerarchica) dei ruoli tra i generi — ed è lo stesso tentativo che si intravede oggi dietro le proposte pro-nataliste o di sostegno alla maternità da parte delle destre, e che il governo Meloni potrebbe mettere in pratica. Oggi come ieri, questo tipo di azione politica si prefigge l’obiettivo di consolidare un sistema conservatore e “tradizionale” all’interno di una più ampia definizione gerarchica della società, normata dallo Stato, senza ammissione di alternative. 


In copertina: foto via Giorgia Meloni / Facebook

Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia (4Punte, 2021). Si occupa di storia politica italiana e di storia sociale del lavoro in prospettiva di genere, con particolare attenzione alla storia del lavoro domestico. Seguila su Instagram

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