Fughe e ritorni: storie di emigrazioni queer
D’estate, per votare, in occasione delle festività: tornare a casa per tantə giovani diventa spesso un’occasione per rivivere esperienze e momenti difficili, che hanno cercato di lasciarsi alle spalle
in copertina, foto Dorsa Masghati
D’estate, per votare, in occasione delle festività: tornare a casa per tantə giovani diventa spesso un’occasione per rivivere esperienze e momenti difficili, che hanno cercato di lasciarsi alle spalle
Un abbraccio accogliente di bentornatə, il cibo buono, la vecchia cameretta, il calore della famiglia, l’odore del caffè appena svegliə, i pranzi e le cene interminabili trascorse a ridere, scherzare, giocare, a parlare di politica e attualità, con la leggerezza di chi per fortuna non vive certe disgrazie, alcune ingiustizie. Ciò che conta è essere di nuovo tuttə insieme. Ma non per tuttə.
Pasqui ha 19 anni, è natə a Foggia – dove tornava tutti i weekend d’infanzia – e si è trasferitə prima a Pisa, poi a Imola, sebbene trascorra la sua adolescenza a Bologna. “Più vado avanti, meno sento Foggia la mia città: ora è solo un luogo di nascita. Sono abituatə a pensare che quando torno devo provare malessere.”
Monia, invece, ha 22 anni. È natə a Mazara del Vallo e da quattro anni vive a Bologna, dove ha finalmente trovato la sua dimensione, lontanə da una città che lə opprimeva e talvolta – ancora oggi – lə opprime.
“A rendere le piccole realtà tali sono le persone: tuttə parlano di tuttə, storpiano la realtà e fanno girare pettegolezzi e giudizi che fanno sentire fuori luogo ovunque.”
Come ogni estate, moltissime persone hanno fatto rientro nelle loro città e case natali per mettere temporaneamente in pausa una vita spesso frenetica, animata dall’università e dal lavoro. Un rientro, spesso, fatto di angosce, piuttosto che sospiri di sollievo. Le festività – e le vacanze tutte – sono un momento per rincontrare lə propriə famigliarə e reimmergersi nei luoghi di infanzia e adolescenza, dove si sono trascorsi gli anni più importanti e anche segnanti della propria vita. Sono luoghi in cui spesso è difficile vivere, in particolare nelle fasi della propria crescita e della propria formazione, durante le quali ci si ritrova a far fronte ai cambiamenti interni ed esterni. “Definirei Foggia come anonima, prigioniera del suo retaggio culturale. A Foggia si ha paura dello scandalo e non si è liberə di essere chi si è per quello che può succedere. Imola può ritenersi una via di mezzo, una pop star che ci ha provato, ma non ce l’ha fatta; mentre definirei Bologna come libera, transfemminista, colorata. Quando sono arrivatə qui tutto era più grande rispetto alla piccola realtà, che sia Imola o Foggia” ci racconta Pasqui.
Nei centri medi e piccoli la comunità queer ha da sempre avuto enormi difficoltà a scoprirsi e a emergere. Vivere in una piccola realtà, per una persona queer, significa far fronte ogni giorno agli occhi di chi lə circonda, ad essere vistə come “alternativə”, diversə. Significa andare incontro a occhiatacce, discriminazioni, spesso bullismo e abusi – nell’ambiente famigliare e non. Quando “per fortuna o per sfortuna, sebbene incredibilmente sbagliato” Monia ha subito un outing da parte dei genitori della sua ragazza, sua madre e suo padre hanno scoperto il suo orientamento sessuale: “Loro per fortuna sono dalla mia parte, anche se la prima cosa che mi ha detto mia madre e che più mi ha fatto riflettere è stata: ‘Stai attentə!’ Dovevo essere attentə solo per il mio orientamento sessuale, diverso da quello della maggior parte delle persone.” È per tutti questi motivi che l’età matura – almeno per chi ne ha il privilegio – rappresenta la possibilità di emigrare verso realtà più grandi e aperte. “Vivo a Bologna da ormai quattro anni e tornare giù continua ad essere un peso. Nella mia città d’origine ho una nomea: sono una ‘puttana’ per il semplice fatto di aver frequentato sia ragazzi che ragazze. In passato giravano addirittura dei volantini che hanno rovinato la mia reputazione. Tutt’oggi non mi sento liberə di uscire e di vivere in quella città. E quando vado a trovare i miei genitori sono chiusə in casa.” ci dice Monia.
C’è chi si trasferisce per lavoro; chi per studiare e avere migliori opportunità di carriera. E chi si trasferisce per fuggire da contesti opprimenti e violenti, nocivi per la propria salute mentale e fisica. “Smalltown Boy” – canzone di debutto del 1984 dei Bronski Beat – parla di un ragazzo che abbandona la propria famiglia e la propria cittadina di provincia a causa della sua omosessualità, e racconta la necessità per gli uomini gay di fuggire dall’intolleranza delle piccole città e di perseguire la reinvenzione nella grande città. Un fenomeno incredibilmente diffuso nello spazio e nel tempo, l’emigrazione giovanile – in particolar modo di giovanə queer – rappresenta un segnale e un campanello d’allarme. Tuttavia, il privilegio di trasferirsi comporta spese e impegni che non tuttə – singolarmente e/o sostenutə dalla famiglia – possono permettersi.
In un inevitabile paragone tra le due realtà, Monia si apre e ci racconta: “Il disagio che provo a Mazara del Vallo è molto forte; mentre a Bologna mi sento liberə di fare ed essere chi voglio. Probabilmente il giudizio della gente esiste, è innegabile, ma non è come a Mazara: qui alla gente non importa ciò che fai.”
Andare via di casa – per lə più fortunatə – significa trovare finalmente spazi accoglienti e non giudicanti, liberi da qualsiasi tipo di stereotipo e aperto all’ascolto reciproco. Ci si spoglia della maschera che si è statə costrettə ad indossare per tutta la vita per adattarsi e sopravvivere in ambienti poco sicuri, pesanti, violenti e spesso pericolosi.
È per questo motivo che per moltissime persone queer risulta ancora oggi difficile – in quanto nocivo e invalidante per il proprio benessere psico-fisico – tornare a casa, nella propria città natale: il momento delle vacanze comporta un conflitto interiore, perchè sebbene spesso si muoia dalla voglia di riabbracciare lə propriə carə, si è pienamente consapevolə che probabilmente quei giorni di pausa non saranno sereni come li si può immaginare.
“Per quanto senta tanto distante l’appartenenza a Foggia, quando penso a quella città provo un forte dualismo: Foggia ha un pezzo del mio cuore perché lì c’è tutta la mia famiglia. Ma un animale che nasce in gabbia, che non ha mai conosciuto l’ambiente esterno, presuppone che quella gabbia sia la cosa più bella che ci possa essere, che sia la normalità; quando fuori c’è tutto un mondo che probabilmente non riuscirà mai a esperire. Quando torno a Foggia mi sento in gabbia, come l’animale che ha conosciuto la libertà e poi improvvisamente viene privato di tutto il bello che ha visto fuori. Se dovessi andare a Foggia vestitə in un certo modo, sicuramente riceverei commenti e insulti per strada come già successo in passato, anche in presenza di miə famigliarə.”.
È un conflitto che porta moltə a decidere di non tornare a casa, ma di rimanere nella città che lə ospita e lə ha accoltə. Una decisione che comporta sensi di colpa: uno scontro interiore tra l’affetto per lə propriə carə e quello per se stessə.
Per molte persone le vacanze significano solitudine, tristezza, rabbia, frustrazione. Giorni vissuti nella paura di essere scopertə, se ancora non ci si è sentitə sicurə di fare coming out. Nella paura di essere continuamente investitə da domande scomode e inappropriate.
Con la voce quasi rotta, Monia ci racconta dei suoi anni scolastici, e in particolar modo di alcuni episodi che l’hanno coinvoltə: “Io e la mia ragazza eravamo l’unica coppia ‘same sex’ dichiarata, e anche un bacio durante l’intervallo faceva scalpore. Per i corridoi ridevano di noi e mi urlavano contro ‘lesbica’, come se fosse un insulto. Ci lanciavano cartacce. Un bullismo che fa male e ti segna. Più di tutto mi ha poi scioccatə essere statə convocatə in presidenza per essere ripresə per non avere più comportamenti inappropriati all’interno del luogo scolastico. Un bacio durante l’intervallo era un comportamento inappropriato. Un gesto per cui nessuna coppia eterosessuale è mai stata richiamata in presidenza. Mi sono chiestə cosa ci fosse di sbagliato in me e cosa stessi facendo, e da lì ha avuto inizio un periodo di chiusura nei confronti di tuttə. E tutto ciò ha ancora ripercussioni sul mio presente.”
Anche se non è facile immaginare come questi contesti possano cambiare e migliorare — a maggior ragione in tempi brevi — è evidente la necessità di agire e rendere vivibili le piccole realtà, di creare spazi sicuri — al di fuori delle famiglie — in cui anche chi vive in una piccola cittadina possa rifugiarsi per essere accoltə, capitə, ascoltatə.
“Per fortuna, più si va avanti, più anche nella piccola realtà si nota un cambiamento dovuto al cambio generazionale. Ciò che è certo è che l’ambiente scolastico dovrebbe migliorare. La scuola è tenuta a rispecchiare la società,” afferma Pasqui.
Oggi stiamo provando a decostruire la famiglia e la sua lettura in chiave eterocispatriarcale a cui siamo da sempre statə educatə, e anche indottrinatə. C‘è chi ci ricorda che le famiglie si possono scegliere; che il legame di sangue non è una prerogativa per sentirsi vicinə a chi non ci accetta per come siamo. Pasqui ha la fortuna di poter considerare lə suə amicə come una sorta di “famiglia scelta” (“chosen family”): “Senza la mia “chosen family” avrei fatto fatica ad andare avanti. Se penso ai miei due coming out (uno per il mio orientamento sessuale, l’altro per la mia identità di genere), ricordo quanta forza mi abbiano dato lə miə amicə: mi comprendevano, sapevano che in casa stessi male e talvolta mi aiutavano a fuggire – metaforicamente e non.”
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