Perché non basta fare la Rifondazione del Pd

Forse questa volta il Partito democratico si troverà a doversi confrontare con le proprie spaccature interne — tra correnti e ideologie. Ma come sempre, il rischio più grande è che non cambi niente

Perché non basta fare la Rifondazione del Pd

Forse questa volta il Partito democratico si troverà a doversi confrontare con le proprie spaccature interne — tra correnti e ideologie. Ma come sempre, il rischio più grande è che non cambi niente

Si è tenuta ieri la direzione nazionale del Partito democratico, il primo importante appuntamento che porterà al congresso dell’anno prossimo. L’assemblea è durata quasi 10 ore, con decine di interventi: se siete amanti del genere e avete molto tempo libero, potete recuperare la diretta su YouTube. Nel proprio intervento di apertura, Enrico Letta ha fatto per la prima volta un esplicito “mea culpa” per aver impostato la campagna elettorale quasi unicamente sulla difesa del governo Draghi: “L’insistenza su questo fatto ha penalizzato il Pd,” che non è riuscito a mostrarsi soltanto come “il partito di coloro che ce la fanno.” All’autocritica si affianca però anche l’autoassoluzione: Letta non ha perso occasione di attaccare gli interlocutori del campo largo che “non volevano stare insieme,” e ha detto che tutto sommato il risultato “non è stato catastrofico.” D’altra parte — ha aggiunto nella replica al termine dei lavori — stare all’opposizione “ci farà bene, farà bene al Pd e ci consentirà di rigenerarci.” Alla fine, la relazione del segretario è stata approvata con un solo voto contrario — quello di Monica Cirinnà — e due astenuti.

Ma come si potrebbe rigenerare il Pd? Parlando dell’anima del partito, nella lunga seduta di autocoscienza di ieri sono emerse le contraddizioni e le divisioni di sempre: Orlando ha parlato di “ambiguità congenita” e di “conflitto irrisolto” tra un partito “neoliberale” e uno socialista: “Dobbiamo decidere da che parte stiamo nel conflitto sociale, altrimenti rischiamo di finire nella tenaglia tra un partito delle élite (Calenda) e uno socialpopulista (Conte).” C’è poi la frattura generazionale — “sono cambiati tanti segretari, ma il gruppo dirigente è sempre lo stesso,” avverte il sindaco di Bologna Matteo Lepore — e soprattutto quella di genere: la presidente Valentina Cuppi ha parlato apertamente di un partito “fortemente maschilista e dominato dalle correnti.” Su questo punto anche Letta ha ammesso che “il fallimento della nostra rappresentanza è chiaro e evidente.”

Le uniche certezze, al momento, sono che il partito non si scioglierà — è l’unica cosa su cui sembrano essere tutti d’accordo, nonostante il suggerimento arrivato da Rosy Bindi in questo senso — né cambierà il simbolo. A marzo si terranno le primarie e Letta resterà al proprio posto fino alla scelta del proprio successore, che avverrà al termine di un “congresso costituente” da portare avanti parallelamente al lavoro parlamentare. Con il rischio, come sempre, che alla fine non cambi nulla.

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